L’olandese Jan Timbergen (1903-1994), primo Premio Nobel dell’economia, è considerato il teorico moderno dell’ingegneria sociale. Prima di lui campioni dell’ingegneria sociale erano stati, nell’antichità, il filosofo greco Platone (428-348 avanti Cristo), e in tempi più recenti il sociologo e filosofo positivista Auguste Comte (1798-1857), sostenitore del principio «prevoir pour pouvoir» (prevedere per controllare).
Gli ingegneri sociali sono convinti che così come si può progettare un ponte, si possa progettare anche un nuovo sistema socio-economico, cambiando radicalmente le regole dell’economia. Trascurano, questi ingegneri, che le azioni degli uomini sfuggono a qualsiasi previsione perché sono la risultante, il crocevia di infinite situazioni, relazioni, combinazioni, sensazioni, passioni, decisioni.
Quando il presidente americano Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) avviò il New Deal per combattere la Grande Depressione iniziata nel 1929, non aveva in tasca una ricetta infallibile, tanto meno aveva in testa la convinzione che la sua terapia avrebbe guarito l’economia malata. «Non possiamo sapere prima – osservò il presidente – se questa soluzione funzionerà, ma dobbiamo provarci». Roosevelt riconosceva che i governi non sono infallibili e che l’unica filosofia degna di un governo serio è quella di procedere per congetture e confutazioni, per usare la terminologia di Karl Popper (1902-1994), l’intellettuale della Società Aperta, il nemico di tutti i costruttivismi e perfettismi.
Insomma. L’ingegneria sociale non può funzionare, come dimostra l’estratto conto dei medesimi ingegneri sociali. Se costoro fossero davvero bravi nel pianificare il futuro, arricchirebbero innanzitutto se stessi oltre che il resto della comunità. Invece, non riescono giammai a prevedere se il tasso d’interesse (informazione chiave per ogni investimento) salirà o scenderà. La verità è che, nelle scienze sociali, compresa l’economia, la conoscenza è più sfuggente di una biscia.
Un altro Nobel dell’economia, Paul Samuelson (1915-2009), scriveva che «è un’illusione da dentista o da professore associato di econometria pensare di poter influenzare con una telefonata l’attività di coloro che contano i baccelli di cacao in Africa e di poter seguire minuto per minuto l’arrivo di nuove informazioni». Ancora più iconoclastico il presidente Harry Truman (1884-1972), successore di Roosevelt alla Casa Bianca: «L’esperto è una persona che non vuole imparare niente di nuovo, altrimenti non sarebbe un esperto».
Ora. Renzi crede all’ingegneria sociale? Sì e no. O meglio, un giorno dà l’impressione di crederci. Il giorno seguente, no. Renzi dà l’impressione di crederci quando snocciola un annuncio dopo l’altro, azzardando improbabili pronostici sulla crescita del Pil o sulla frenata della decrescita. Dà l’impressione di crederci soprattutto quando propone un nuovo assetto costituzionale e istituzionale, o quando ipotizza un nuovo quadro legislativo nella materia del lavoro. Dà, invece, l’impressione di non crederci affatto quando agli annunci non fa seguire gli interventi concreti. Senonché tutto lo Stato italiano nei suoi mille rivoli centrali e locali sembra già progettato da un ingegnere sociale assai longevo, al quale è sfuggita di mano la situazione. Per cui, le iniziative di correzione per rimediare agli effetti indesiderati, o alle cosiddette conseguenze nefaste di vicinato, dovrebbero servire a modificare le perversioni dello Stato costruttivista, cioè dello Stato factotum.
Il giallo dell’articolo 18, la cui riforma o abolizione Renzi vorrebbe decidere dopo aver chiesto e ottenuto una delega in bianco, è come si dice, indicativa. Renzi non vuole scoprire le carte. Il che lascia la partita sulla norma più delicata dello Statuto dei lavoratori aperta ad ogni risultato. Renzi potrebbe accontentarsi di un punto simbolico, lasciando le cose come stanno, ma facendo credere al resto del mondo di aver introdotto la flessibilità in uscita nelle fabbriche e negli uffici. Potrebbe cambiare da cima a fondo la legislazione, accettando di sottoporsi a un lungo periodo di contestazione politica e di conflittualità sociale. Potrebbe modificare di poco lo Statuto, in modo tale da realizzare la quadratura del cerchio tra la Confindustria e la Cgil. Per ora, non si capisce quale sarà l’epilogo di questo confronto-scontro. Bisognerà attendere il testo dei decreti attuativi che, essendo di pertinenza del sinedrio tecnocratico di Stato, solitamente non brillano per chiarezza espositiva e per facilità interpretativa.
L’oscurità del linguaggio burocratico, oltre a giovare alle parcelle degli avvocati grazie alla proliferazione dei contenziosi, sublimano l’esoterismo degli ingegneri sociali, cui non pare vero di disegnare costruzioni sempre più ardite, ma più instabili di un castello di sabbia, come direbbe l’economista americana Deirdre N. McCloskey, autrice del volume «I vizi degli economisti, le virtù della borghesia», appena sbarcato in libreria per le edizioni dell’Istituto Bruno Leoni.
Renzi, per ora, ha scelto di recitare la parte dell’Annunciatore. La tentazione di fare l’Ingegnere (sociale) di solito è irresistibile per la maggioranza della classe politica. Ma è una tentazione suscettibile di tramutarsi in «presunzione fatale», tallone d’Achille di tutti i leader smaniosi di voler ridisegnare la società a propria immagine e somiglianza.
Da La Gazzetta del Mezzogiorno, 9 ottobre 2014