6 Giugno 2022
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Economia e Mercato Teoria e scienze sociali
È difficile essere scettici e ottimisti assieme. Storica dell’economia, autrice di una fondamentale trilogia sull’«età borghese» e i valori che hanno reso possibile lo sviluppo economico (Luiss University Press ha di recente pubblicato «La grande ricchezza», che ne è una specie di estratto), Deirdre McCloskey guarda al futuro con ottimismo ma anche con sereno disincanto.
A Londra, all’Erasmus Forum di cui è fellow, ha appena tenuto una lezione su «The Near Impossibility of Policy», la quasi impossibilità delle politiche. «Se i macroeconomisti sapessero davvero prevedere il ciclo economico – dice scherzando – sarebbero tutti molto più ricchi. La macroeconomia è utile per capire il passato, non per vaticinare il futuro».
In Italia l’inflazione è arrivata al 6,9%, il valore più alto dagli anni Novanta. In Germania è al 7,9%, come nel 1973. Negli Stati Uniti è su valori superiori all’8%, i massimi dal 1981 ad oggi. Dobbiamo preoccuparci?
«La situazione è seria, ma non credo ci troveremo di nuovo in uno scenario come quello degli anni ’70 e dei primi ‘80. All’epoca, il livello dei prezzi aumentò, in un quindicennio, di qualcosa come quattro volte. Siamo ancora ben lontani da una situazione simile».
Le banche centrali potranno spegnere la fiammata inflazionistica?
«Le banche centrali sono istituzioni sopravvalutate. L’inflazione dipende dal rapporto fra disponibilità di moneta e beni che si possono acquistare con quella moneta. Per un’inflazione sostenuta, bisogna avere per lunghi periodi molta più moneta dei beni che possono essere comprati con essa».
Dal 2008 a oggi abbiamo inondato il mondo di liquidità, apparentemente senza generare inflazione…
«Questo ha lasciato perplessi molti di noi. Credo sia importante riflettere sul ruolo che ha la disponibilità di fondi mutuabili rispetto agli impieghi per essi possibili. Da quando la Cina è diventata una delle maggiori economie del mondo, esiste un enorme risparmio cinese. I cinesi non si fidano del loro governo e hanno una pessima opinione dei servizi che offre, quindi risparmiano per premunirsi contro i rovesci di malattia e vecchiaia. Questo ha influenzato profondamente inflazione e tassi nell’ultimo ventennio».
Gli istituti di emissione hanno poco da fare, quindi?
«Dovrebbero incominciare a non fare danno. Cinquant’anni fa, quando anch’io m’illudevo, come molti economisti, che potessimo davvero “guidare” l’economia, se non altro tutti eravamo convinti che a un obiettivo dovesse corrispondere un solo strumento. Oggi si pensa che la politica monetaria sia lo strumento giusto per risolvere qualsiasi problema…».
Più dell’inflazione dovrebbero preoccuparci le politiche messe in atto per affrontarla?
«In ultima analisi, l’inflazione prolungata degli anni Settanta è stata l’esito di una scelta politica. Le banche centrali stampavano denaro per sostenere la spesa pubblica, perché ai governi conveniva fare debito anziché farne pagare il conto ai contribuenti tassandoli di più. È successo non solo in Italia ma anche in Brasile e negli Usa. Solo la Germania prese una via diversa, grazie a un robusto pregiudizio diffuso contro l’inflazione».
In Italia abbiamo un «bonus inflazione» contro il carovita…
«È esattamente il contrario di quello che si dovrebbe fare. Se l’inflazione riguarda il rapporto fra moneta disponibile e beni e servizi che possono essere acquistati con essa, è difficile ridurla distribuendo quattrini…».
Per trent’anni i prezzi sono rimasti sotto controllo grazie a innovazione tecnologica e globalizzazione. Non paghiamo in termini di aumenti dei prezzi anche le nuove strozzature nello scambio internazionale?
«Sono in molti a discutere di problemi nelle supply chain internazionali, ho l’impressione però che lo facciano perché non hanno ben capito di che cosa parliamo. In economia contano i prezzi relativi (la quantità di un bene necessaria per acquistare uno o più unità di altri beni) non i prezzi assoluti, cioè i valori monetari. I prezzi relativi cambiano continuamente, non sono scritti nella pietra, lo stesso vale per le decisioni di produzione delle imprese. Non ci sono supply chain che si “distruggono”: si tratta di un flusso di decisioni sempre in evoluzione».
Tendiamo a esagerare la portata delle previsioni di analisti e governanti?
«Credo sia necessario mettere insieme due grandi intuizioni, una di Hayek e una di Keynes. Hayek ci spiega che gli economisti non conoscono bene il presente, perché le informazioni rilevanti per le scelte prese giorno dopo giorno non le hanno loro ma gli imprenditori. Keynes ci ricorda che nessuno può conoscere il futuro. Pensare che gli economisti, da consiglieri del principe, possano “condurre” da qualche parte l’economia è come affidarsi a qualcuno che guida senza occhiali, col parabrezza appannato e senza conoscere la strada su cui si è avviato».
da L’Economia del Corriere della Sera, 6 giugno 2022