Da ogni riduzione delle barriere tutti traggono vantaggio, tranne chi non è capace di confrontarsi con la concorrenza
Chi ha paura della Cina? Ha fatto bene, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, a incontrare il suo omologo Li Quiang. Si tratta del primo viaggio ufficiale del governo a Pechino, dopo che le relazioni si erano fatte tese per l’abbandono dell’accordo sulla via della seta. Secondo la presidente del Consiglio, obiettivo della visita è “iniziare una fase nuova, rilanciare la nostra cooperazione bilaterale”.
Si tratta di un segnale importante in una fase storica in cui, sebbene il volume degli scambi internazionali continui a crescere, il consenso politico sembra andare sempre più in una direzione opposta. È almeno dal Covid (se non prima) che si osserva questa deriva: l’enfasi su parole d’ordine come l’ “autonomia strategica” e l’accorciamento delle filiere non sta a indicare altro se non la volontà di ridurre l’interdipendenza economica tra i paesi e le regioni del mondo. Poiché, però, questo comporta la volontà di impedire o limitare la specializzazione internazionale del lavoro, ciò a cui stiamo assistendo è una scelta consapevole delle classi dirigenti globali per un mondo che, nel nome di un malinteso senso di sicurezza, finirà inevitabilmente per crescere di meno.
L’attacco al libero scambio non si limita alle parole: riguarda anche le istituzioni che, pur con tutti i loro limiti, hanno incarnato lo sforzo di costruire un quadro multilaterale di regole. Negli ultimi anni – principalmente per effetto degli attacchi sferrati prima da Donald Trump e poi da Joe Biden, in assoluta continuità e coerenza l’uno con l’altro – abbiamo assistito alla progressiva marginalizzazione e demolizione dell’Organizzazione mondiale del commercio. È anche per questo che diventano doppiamente importanti i negoziati bilaterali, sebbene essi comportino una inevitabile segmentazione del commercio internazionale. Così, Meloni e Li si sono confrontati su temi come le auto elettriche, le rinnovabili e la farmaceutica.
La premier italiana, tuttavia, non ha evitato le critiche: “La nostra nazione resta desiderosa di cooperare, ma è fondamentale che i nostri partner si dimostrino genuinamente cooperativi giocando secondo le regole, per assicurare che tutte le aziende possano operare sui mercati internazionali in condizioni di parità. Perché se vogliamo un mercato libero, quel mercato deve essere anche equo”. Queste parole appaiono di buon senso ma nascondono un’insidia: troppo spesso, infatti, la retorica sul “commercio equo” non ha fatto altro che nascondere propositi protezionistici. La stessa (scellerata) decisione dell’Unione europea di elevare dazi sulle auto elettriche cinesi si nasconde dietro l’effetto distorsivo dei sussidi cinesi a tale settore.
In sintesi, il viaggio di Meloni a Pechino è un segnale incoraggiante ma bisogna sconfiggere la narrazione del commercio internazionale come un gioco a somma zero, in cui la Cina “guadagna” esportando veicoli elettrici ma “perde” accettando l’import di prodotti farmaceutici dall’Italia (e viceversa). La realtà è che da ogni riduzione delle barriere tutti traggono vantaggio, tranne coloro che non sono abbastanza produttivi e avanzati da reggere la concorrenza straniera.