Meno regole, più competitività. Ci serve lo spirito del garage

Quanto pesano le differenze tra l'Ue e gli Stati Uniti? Da noi l'attitudine alla regolamentazione è più forte dei piani per snellirla

24 Febbraio 2025

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

Dove punta la bussola della competitività? La strada per tornare a crescere in Europa è lastricata di rapporti, position paper e cruscotti. L’ultimo contributo all’industria della discussione sulle cose da fare è, appunto, il competitiveness compasso.

I critici hanno parlato di un documento sdraiato sulle esigenze dell’industria che presenta una «vasta agenda di deregolamentazione». Sarà. L’approccio della Commissione europea alla deregulation ricorda quello dei governi italiani: si nomina un ministro alla semplificazione, in questo caso si assegna una delega alla semplificazione al commissario Valdis Dombrovskis, e gli si affida contestualmente il compito di mettere un po’ d’ordine nel complesso delle regole che Bruxelles sforna a getto continuo.

L’economista ed ex parlamentare europeo Luis Garicano vede il bicchiere mezzo pieno: la Commissione si è ormai convinta che tornare a crescere sia una priorità. Ma è il primo a smorzare ogni ottimismo: Ursula von Der Leyen e soci restano affezionati a un approccio no trade off, ovvero botte piena e moglie ubriaca. «Non tutte le cose sono compatibili, men che meno tutti gli ideali dell’umanità», ammoniva Isaiah Berlin. Figurarsi le scelte di politica economica.

Nel documento della Commissione, l’attuale strategia per la decarbonizzazione viene riaffermata in toto e nello stesso tempo si segnala la questione degli elevati costi dell’energia, tanto avvertita dal comparto manifatturiero. Il guaio è che la Commissione sembra non vedere neppure come le due cose siano, almeno nel breve termine, in tensione. E quindi annuncia un nuovo Clean Industry Deal, che dovrebbe palesarsi nei prossimi cento giorni, e nel contempo un piano d’azione per l’energia a prezzi accessibili. Che succede se un obiettivo è in contrasto con l’altro? Quale prevale?

Lo stesso vale per la «riduzione delle dipendenze dell’Unione Europea in ambiti strategici della supply chain». Fine più o meno condivisibile, ma perseguirlo implica un peggioramento dell’efficienza del sistema produttivo. Le imprese cercano e trovano da sole, infatti, i fornitori che garantiscono loro le condizioni migliori di approvvigionamento. Il potere politico può interferire con questo processo, invocando ragioni di carattere geopolitico.

Ciò però rappresenta dei costi: le aziende non potranno più comprare materie prime e beni intermedi dove più loro conviene, pertanto sarà per loro più dispendioso svolgere la propria attività e più cari saranno per i consumatori i beni che esse producono. Siccome tali beni sono spesso, a loro volta, beni intermedi, necessari per altre produzioni, l’efficienza complessiva del sistema peggiora.

Qualcuno può essere persuaso che ciò sia necessario, per fronteggiare un ipotetico nemico esterno o per altri motivi. Se la politica ne è convinta deve avere il coraggio delle proprie scelte, non, appunto, fare finta che di scelte non si tratti. Non bastano gli specchietti perle allodole del momento: come parlare di un approccio data driven o evocare i mitici Big Data.

La sostanza è che la Commissione europea vuole influire il più possibile sulle scelte di produzione: vuoi in nome dell’ambiente, vuoi in nome della sicurezza. Anche chi condivide quegli obiettivi dovrebbe avere l’onestà intellettuale di ammettere che è molto probabile rappresentino un costo, in termini di crescita economica.

La presunta deregulation europea consisterebbe in una riduzione degli oneri amministrativi per le imprese, quantificata nel 25% degli oneri attuali. L’obiettivo è il solito, snellire le procedure. Ma non ci sono promesse circa non il «quanto» bensì il «cosa». Non si osa nemmeno pensare non che un certo certificato possa essere accettato in PDF anziché in carta bollata, ma che magari si possa proprio evitare di pretenderlo. Che, cioè, sia possibile restituire spazio alla libertà economica delle imprese.

A ciò dovrebbe idealmente servire il 28esimo ordinamento, proposta mutuata dal Rapporto Letta per consentire alla Commissione di scrivere, ex novo, le regole di uno «Stato membro fantasma», le quali potrebbero essere adottate dalle imprese in alternativa a quelle degli Stati esistenti.

L’idea di per sé è condivisibile, soprattutto tenendo presente che la regolamentazione non è un prodotto di legislatori onniscienti: è possibile che le regole attuali siano penalizzanti, che abbiano effetti controproducenti, che i cambiamenti nella tecnologia e nelle abitudini richiedano evoluzioni regolamentari che difficilmente riescono a imporsi in quel gioco di veti incrociati che è la vita parlamentare. A questo serve la competizione istituzionale. Bruxelles vorrebbe farla ai propri Stati membri, che però è probabile si ribellino, considerandolo il regime del 28esimomo stato un altro passo verso l’armonizzazione.

In totale, nella bussola ci sono una quarantina di «azioni» e «piani». Per quanto l’Europa guardi con invidia agli Stati Uniti — e a ragione: il prodotto interno lordo pro capite in Usa è oltre 82 mila dollari, nell’ Unione europea siamo a 61 mila — non ne abbiamo appreso la lezione.

Gli Stati Uniti non sono cresciuti grazie alla Cdp, alla Kfw, ai loro equivalenti (il fondo sovrano americano nasce ora con Donald Trump), o alla politica industriale di Washington. Le imprese americane che dominano oggi le nuove tecnologie sono nate tutte nei garage.

È il momento del garage quello che manca all’Unione europea: un ambiente regolatorio che stimoli la creatività e la voglia di rischiare. Quello dovrebbe essere il Nord della bussola. Ma le bussole servono a poco, se il navigante ha la sua rotta in testa e non c’è verso di convincerlo a correggerla

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