30 Marzo 2015
Il Sole 24 Ore
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Per alcuni, giustapporre «impresa» e «cultura» può voler dire una cosa soltanto. La «cultura» (per meglio dire, un selezionato gruppo di uomini colti) indica all’impresa capitalistica una via di redenzione: un congruo sacrificio sull’altare di iniziative meritevoli può attutire la percezione di un fatto increscioso. Le imprese hanno per obiettivo fare profitti.
Il motivo del profitto è imperdonabile. In parte, perché è la ragion d’essere dei gretti e dei meschini: il grande imprenditore sui giornali è sempre «Paperone», e non vuol essere un complimento, un omaggio alla straordinaria determinazione di quel self made man piumato. Si dice «Paperone» per dire l’istinto dell’accumulazione per l’accumulazione, che inghiotte fini socialmente tanto più desiderabili: la solidarietà, il rispetto per l’ambiente, l’amore per il bello. Proprio qui sta il problema: il profitto scardinerebbe ogni gerarchia di valori. «Paperone» è convinto che, se con la filosofia non si mangia, l’università non dovrebbe produrre filosofi. La «cultura», ovvero il finanziamento di iniziative culturali immaginate da altri, è il modo col quale chi costruisce ricchezza a spese dei «valori», può fare qualcosa a vantaggio di questi ultimi. Una sorta di risarcimento per il male che, consapevolmente o meno, arreca a tutti noi. Le cose, ovviamente, sono un po’ più complicate. Lo dimostra Antonio Calabrò con la formidabile serie di istantanee raccolte ne La morale del tornio, titolo suggestivo che, riprendendo una battuta di Giulio Tremonti, allude all’ «etica del lavoro», associandola alla «macchina utensile tipica dei processi produttivi metalmeccanici, simbolo industriale». Calabrò racconta con pazienza come le imprese assieme subiscono fortemente l’influsso della cultura diffusa, e contribuiscono a formarla.
Joel Mokyr ha dimostrato come ciò che chiama l’«illuminismo industriale» sia stato una delle ragioni fondamentali per il decollo economico dell’Inghilterra a fine Settecento. In tempi a noi più vicini, scrive Calabrò, «la relazione con la creatività artistica è sempre stata centrale, nelle migliori imprese italiane». In alcuni casi, le aziende sono un sottoprodotto di quella creatività: si pensi alla moda e al design. Ancor più importante è che la «cultura» informa e definisce la cornice sociale nella quale le imprese possono crescere e prosperare. Calabrò esorta a riscoprire la cultura della competizione, cominciando col restituire alle parole il loro significato. Competizione viene da «cumpetere, l’andare insieme verso un obiettivo comune». La concorrenza è una scuola. Le migliori imprese italiane, spiega Calabrò, sono quelle che non temono di misurarsi coi mercati internazionali. È un processo assimilabile all’allenamento costante di uno sportivo, che osserva i concorrenti per carpirne i segreti e correre più veloce diloro. È essenziale che vi sia una linea d’arrivo: che qualcuno vinca, e qualcuno perda (quand’anche solo temporaneamente: la gara del mercato non assegna trofei permanenti). Per questo, la competizione esige una cultura del fair play, deve compiersi in un quadro di regole certe e semplici, l’arbitro neppure dovrebbe pensare a scendere in campo a metà partita.
Nella gara concorrenziale, la «cultura» può giocare un ruolo chiave: e non solo per suggerire qual è la mostra più bella da finanziare. Per fare profitti, le imprese devono prendere le misure ai consumatori. La cultura, il gusto, il senso del bello possono rivelarsi essenziali per anticiparne le preferenze. E anche per rendere sempre più efficiente l’allocazione dei fattori produttivi.
Calabrò riprende una provocazione di Alain De Botton, sui filosofi nei board che servirebbero a «pensare in grande», a «maneggiare gli strumenti analitici e interpretativi dell’economia e della scienza (le intersezioni tra le due dimensioni sono sempre più frequenti, come tutto l’universo del bio-tech testimonia)». È una buona cosa, suggerisce, studiare filosofia nei politecnici. Ed è un’ottima cosa che ci siano, e «piacciano», luoghi come il Muse a Trento l’Hangar Bicocca, spazi per definizione ibridati, dove cultura e impresa s’intrecciano con la massima naturalezza. Il filosofo nel Cda è a suo modo un simbolo di un bisogno profondo di questa cosa che chiamiamo «capitalismo»: la diversità di opinioni e di idee, necessaria perché il «motivo del profitto» è un processo d’apprendimento, si va avanti per tentativi, i più bravi imparano dagli errori.
La cultura è ben altro che un modo per lavarsi la coscienza. È una dimensione dell’attività imprenditoriale, a essa consustanziale, nel momento in cui i profitti si fanno venendo incontro ai bisogni delle persone. Le idee sono una materia prima necessaria, se si fa impresa guardando ai consumatori. Ch’è un altro modo per dire: cercando di capire che cosa desiderano gli esseri umani.
Da Il Sole 24 ore, 29 marzo 2014
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