30 Ottobre 2023
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Economia e Mercato
Il rapporto 2023 del Wto fa i conti in tasca alle crescenti tensioni tra Usa e Cina Negli ultimi 70 anni l’economia è cresciuta di 14 volte, il commercio di 45
La notizia della morte della globalizzazione resta grandemente esagerata. Il World Trade Report 2023 dell’organizzazione mondiale del commercio cerca di mettere ordine nel dibattito. Restringere gli scambi a livello di blocchi regionali ha dei costi in termine di benessere e accresce l’incertezza.
Gli scambi internazionali passano da un valore pari a circa il 25% del Pil globale nel 1971, al 61% nel 2007. Poi comincia una fase di arretramento. Il suo inizio coincide con la crisi finanziaria del 2007-2008 ma in realtà non dipende da essa. In parte contano fattori endogeni (la crescita di alcune economie emergenti porta allo sviluppo di nuove produzioni locali, ai danni delle importazioni), in parte esogeni. Di questi ultimi i più rilevanti sono le tensioni commerciali fra Cina e Stati Uniti, che hanno inaugurato una nuova fase di conflittualità generalizzata.
Dal 2018 c’è stata una escalation di dazi sulle importazioni, che ha portato gli Usa a imporre un dazio medio del 19,3% sulle importazioni dalla Cina e quest’ultima a rispondere con un dazio medio del 21,1% sulle importazioni statunitensi. Oltre il 66% delle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti e il 58% delle esportazioni statunitensi verso la Cina sono coperte da tali dazi. Attenzione: l’integrazione economica è più solida di quanto appaia. A dispetto dei tentativi di ostacolarli dei rispettivi governi, i flussi commerciali bilaterali tra le due economie hanno raggiunto un livello record di 690,6 miliardi di dollari nel 2022, con le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti che sono quasi tornate ai livelli del 2018, e le esportazioni statunitensi in Cina che hanno raggiunto un massimo storico. L’evoluzione anticinesi dell’establishment americano (ben di più dei successi elettorali «sovranisti») ha annunciato una radicale revisione della retorica della globalizzazione.
L’integrazione delle economie era compresa, fino a pochi anni fa, come un elemento di forza: consentiva a imprese e Paesi di specializzarsi, di diversificare i rapporti di scambio, di valorizzare le proprie risorse e peculiarità. Dopo la narrazione prevalente ha cominciato a insistere sulla presunta debolezza implicita nel dipendere dagli altri per beni variamente definiti come «strategici». La politica continua a parlare come se fossimo ancora nell’ottocento e a spostarsi fossero manufatti che passano dalle stive delle navi agli scaffali dei supermercati. Invece la globalizzazione contemporanea è fatta di cose che servono per fare altre cose: di input e componenti. Per questo, smontarla è più complicato di quanto si creda.
La Wto sottolinea che, se i flussi fra Cina e Stati Uniti sono cresciuti, essi hanno riguardato soprattutto le merci non coperte da dazio; tendenzialmente quelle su cui grava l’imposta più alta sono state le più danneggiate. Questo non stupisce in generale ma preoccupa in particolare. Fra le categorie di prodotti colpiti ci sono componenti essenziali per l’industria farmaceutica, attrezzature per la generazione di energia verde, semiconduttori e componenti per le telecomunicazioni. Se prendete per buona la neolingua dei politici, è un grande successo: stiamo proteggendo l’industria strategica. Se guardate ai fatti, stiamo pagando la transizione ecologica e la transizione digitale di più di quanto potremmo, se le nostre economie fossero più aperte. Stiamo cioè sacrificando risorse che potrebbero essere impegnate per altre attività imprenditoriali, per nuove ricerche nella farmaceutica e nelle imprese high tech, eccetera.
La Wto evidenzia come, al di là dei titoli dei giornali, «il commercio continua a crescere e la liberalizzazione del commercio progredisce. Sebbene si siano verificate interruzioni nelle catene di approvvigionamento, il sistema commerciale ha retto durante le crisi passate ed è stato in grado di adattarsi in modo flessibile». La riduzione dei costi di trasporto (il 12% fra il 1996 e il 2018) continua a guidare il fenomeno a dispetto dei catastrofismi. Trasportare prodotti agricoli resta relativamente più costoso che muovere manufatti. Inferiore è stata la riduzione dei costi di transazioni legati ai servizi: ma il commercio globale dei servizi (per ora soprattutto servizi business-to-business, dal digitale alla consulenza legale) è la grande opportunità da cogliere in questi anni. La catastrofe della pandemia ci ha insegnato che possiamo slegare tutta una serie di servizi dalla dimensioni territoriale che credevamo imprescindibile.
Questo non significa che non si debba essere preoccupati, per il futuro della globalizzazione. La politica fa danni meno rapidi di quelli che crede di fare, ma ne può causare in abbondanza. Le stesse tensioni Usa-cina dimostrano che la politica commerciale è dipendente dal percorso: a dispetto dei numerosi studi che ne hanno sottolineati i problemi, i dazi di Trump non sono stati rivisti da Biden, anzi.
La globalizzazione che abbiamo conosciuto negli anni Novanta e negli anni Duemila non è avvenuta per caso. Dopo la seconda guerra mondiale, le classi dirigenti del mondo occidentale volevano evitare il ripetersi di quanto avvenuto a inizio secolo: prima, il collasso dell’ordine internazionale avutosi con la prima guerra mondiale e, poi, le nuove restrizioni seguite al crollo del ’29. E’ stato un esperimento di successo: «negli scorsi settant’anni, l’economia mondiale è cresciuta di 14 volte mentre il commercio internazionale si è espanso di 45 volte». Negli ultimi trent’anni, questo fenomeno è coinciso con la straordinaria fuga dalla povertà di interi pezzi del globo. Il fatto che questi dati di fatto siano stati espulsi dal discorso pubblico non promette nulla di buono.
da L’Economia del Corriere della Sera, 30 ottobre 2023