13 Marzo 2023
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Economia e Mercato
È difficile avere un dibattito sereno sull’immigrazione. Per anni il tema è stato sovrapposto a quello della criminalità. La sicurezza è, in molti comuni d’Italia, un’emergenza, che non verrà risolta con proclami su confini e frontiere. Non si può eludere una questione di fondo. Un Paese può sopravvivere senza molte cose: ma non senza abitanti. La natalità in Italia segna, anno dopo anno, nuovi record negativi. L’attuale governo vuole spingere gli italiani a fare figli. Da una parte, però, non è così chiaro che incentivi di carattere finanziario possano avere l’effetto di accrescere la dimensione dei nuclei familiari.
Lant Pritchett si interrogò, in un importante lavoro, sui fattori determinanti la dimensione media dei nuclei familiari. Ne uscì con un pugno di mosche: la dimensione delle famiglie dipende più dalle credenze delle persone (voglio fare figli? Quanti figli desidero?) che da elementi «oggettivi». Dall’altra, se anche fosse vero, come sostengono alcuni think tank conservatori, che gli incentivi economici funzionano proprio perché migliorano la percezione sociale delle famiglie più numerose, gli effetti non sono immediati.
Nel breve termine, l’economia italiana ha bisogno di immigrati. Alcuni stimano la necessità di 200 mila ingressi l’anno (la cifra rilanciata dal sindaco di Bergamo Giorgio Gori). Le previsioni demografiche Eurostat prevedono per il 2020-2070 un flusso migratorio medio di 213 mila persone annue. Lo strumento del decreto flussi, che quest’anno dovrebbe fermare l’asticella a 100 mila ingressi (un valore comunque superiore a quello degli ultimi anni), è necessariamente imperfetto.
Il contributo degli immigrati al lavoro e alle imprese italiane non può avvenire su «chiamata diretta». Non si può immaginare una perfetta corrispondenza fra bisogni delle imprese e ingressi consentiti: se non altro perché i bisogni delle imprese non si presentano con la regolarità dei provvedimenti legislativi. Va di moda pensare che lo Stato possa organizzare l’equivalente internazionale dei centri per l’impiego, in grado di pescare in Nord Africa o altrove esattamente coloro che servono alle produzioni nazionali. Varrebbe la pena interrogarsi sull’efficienza dei centri per l’impiego, prima di invocarne una versione pantografata, per gestire l’immigrazione.
Bisogna accettare che, finché l’Italia continuerà a essere un Paese del «primo mondo», vi saranno sempre persone che arrivano con un visto turistico e poi decidono di fermarsi. L’obiettivo dovrebbe essere tenerli il più lontani possibile dall’economia illegale: il che costringe a ricorrere a strumenti imperfetti, come le sanatorie, che sanciscono una situazione di fatto più che immaginare uno scenario ideale.
La destra sta governando nel segno del pragmatismo: è da vedere se riuscirà a scoprirne le virtù in tema di immigrazione, questione sulla quale FdI e Lega hanno costruito il proprio consenso. La paura viene anche dalla sopravvalutazione del fenomeno. Di recente, ho chiesto ai miei studenti quale pensavano fosse la quota della popolazione mondiale che vive in un Paese diverso da quello natio. Alcuni hanno detto il 40%, altri il 20%, i più moderati il 10%. E’ il 3,6%.
Paradossalmente, se davvero volessimo limitare i flussi migratori, la strategia migliore sarebbe fare l’esatto contrario di quanto prevede il programma oggi condiviso dalle élite occidentali. L’obiettivo dei nostri leader è rivedere, limitare, circoscrivere la globalizzazione.
Gli uomini non sono merci, ma questo non significa che se non possono viaggiare le merci non lo faranno nemmeno le persone. «Aiutiamoli a casa loro» significa, anzitutto, scambiare con i Paesi emergenti: non sommergerli di aiuti allo sviluppo, di dubbia efficacia e di indubbio sapore coloniale, ma coinvolgerli in relazioni economiche profittevoli, basate sulla mutua convenienza. Se si spostano i prodotti, possono non spostarsi le persone: anziché «importare» individui che realizzano determinate cose, si importano quelle cose stesse.
Al contrario, le classi politiche occidentali, a cominciare da quella americana, parlano ossessivamente di rimpatrio delle produzioni, reshoring, e di scambi solo tra Paesi amici, friendshoring. Ma scambiare solo tra Paesi amici significa limitare i rapporti commerciali a realtà che hanno raggiunto più o meno lo stesso livello di sviluppo, ovvero che tendono a limitarsi ad alcuni tipi di produzioni. Di per sé si tratta di un piano perfetto per far divampare l’inflazione, accrescendo i costi dei beni di consumo. Non a caso, le imprese private, che sono costituzionalmente votate a cercare di rendere più e non meno efficienti le loro produzioni, resistono.
Ammettiamo però che le preghiere di Biden, von der Leyen, Macron vengano esaudite: che si commerci solo tra simili. Servirebbero molte più persone disponibili a svolgere mestieri che per anni abbiamo «esternalizzato» ad altri Paesi. Siamo sicuri di trovarne tra i nostri giovani, nelle nostre università?
Un lavoratore su quattro nell’agricoltura italiana è straniero. Difficile immaginare che troveremmo molti più giovani italiani disponibili a lavori manifatturieri oggi «demoralizzati» in economie meno sviluppate. Un mondo più ristretto, de-globalizzato, avrà bisogno di più e non di meno immigrati. Ci si può chiudere alle merci oppure alle persone di altri Paesi. Non alle une e alle altre assieme. Ovviamente, in caso non si desideri l’impoverimento di massa, rapido e infelice.
da L’Economia del Corriere della Sera, 13 marzo 2023