Mps, abbiamo una banca e non sappiamo come sbarazzarcene

Dopo anni di cattiva gestione da parte della politica, il futuro dell‘istituto di Siena è ancora incerto. E la soluzione non può essere lo Stato. Intervista ad Alberto Mingardi

2 Novembre 2021

Tempi

Argomenti / Economia e Mercato

Abbiamo la Banca e non sappiamo come sbarazzarcene. Sono passati anni ma sembrano secoli da quando la politica si entusiasmava per la possibilità di avere una banca e, intercettata, puntualmente finiva esposta sulle colonne dei giornali. Oggi possedere la banca più antica del mondo, il Monte dei Paschi di Siena, è tutto fuorché un affare e sono in pochi ad avere un’idea di che farsene.

C’è chi a sinistra vorrebbe nazionalizzarla, farne una banca di Stato, e chi continua a sperare in un cavaliere bianco che corra in soccorso del Monte in tempo per evitare al governo la mala figura di chiedere un rinvio all’Europa dopo aver fatto scappare anche l’ultimo probabile salvatore.

«Pensiamo a come è andata la vicenda con Unicredit», spiega a Tempi Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni. «In buona sostanza la banca milanese chiedeva una dote importante, per “sposare” l’istituto senese. I manager di UniCredit non sono dei pazzi: da una parte, hanno purtroppo un precedente cui fare appello, che è quello di Intesa Sanpaolo e delle banche venete. Dall’altra, avranno fatto i loro conti e ragionato sul numero di impiegati che potevano inserire nel loro gruppo, sulla ridondanza della rete di sportelli e soprattutto sui crediti di cattiva qualità».

La cattiva eredità della gestione politica
Conti salati quelli presentati dalla banca milanese, secondo alcune stime almeno 8,5 miliardi a carico dello Stato. «La politica sembra pensare che ci sia qualcuno che vuole comprare Mps», continua Mingardi. «Noi sappiamo che qualsiasi transazione può avvenire, purché il prezzo sia quello giusto. Il prezzo di Mps oggi è un prezzo negativo, a testimonianza dell’eredità della gestione politica dell’istituto. Quel che si può provare a fare è cercare di rimetterci un po’ di meno: questo può voler dire fare il famigerato spezzatino, separando i diversi pezzi della banca di Siena, o fare un’asta al ribasso, in cui vince non chi offre di più ma chi chiede di meno. Non c’è però da farsi molte illusioni».

La banca di Stato
Una certa parte della politica vede nel ritiro di Unicredit la grande opportunità per nazionalizzare in pianta stabile il Monte. Quale miglior garanzia, sembrano pensare, per garantire i denari del contribuente che versarli direttamente in una controllata del Mef? «Non mi è chiaro cosa sarebbe una banca “rivolta al cittadino”, e perché dovrebbe essere dello Stato», riflette Alberto Mingardi. «Se un’impresa è pubblica o pratica prezzi politici, quindi in qualche maniera ribalta i suoi costi sul bilancio pubblico, oppure beneficia di regole particolarmente compiacenti per estrarre una rendita dal fatto di non avere concorrenza. Ma in questa situazione di politica monetaria, con questi tassi di interessi, gestire una banca è un’impresa difficilissima e non è che Mps possa chiedere i soldi allo Stato per guadagnare correntisti offrendo loro tassi d’interesse che la situazione non consentirebbe».

Ai liberali vecchia scuola l’ipotesi di dare in mano a questo o a quel ministero la possibilità di gestire un istituto di credito strappa un sorriso amaro. I precedenti, in fin dei conti, non depongono certo a favore del pubblico: incapace per decenni di produrre con soddisfazione panettoni e automobili, lo Stato si ritrova ancora sulle spalle una compagnia aerea il cui nome allarma i più, al punto da esser disposto a pagare 90 milioni per tenerlo chiuso in un cassetto. Commenta Mingardi: «Mettiamola in questi termini: qualcuno ha ipotizzato che Ita Airways potrebbe essere un affare non cattivo, se lo Stato è lesto abbastanza da piazzarla quanto prima in seno a un grande gruppo europeo, perché il mercato del trasporto aereo sta riprendendo quota dopo la pandemia. Questo di una banca non si può proprio dire».

Limitare le perdite di Mps
«Ci conviene cogliere l’occasione rappresentata dall’impegno che ci siamo presi con l’Europa e cercare di limitare quanto più possibile le perdite», stigmatizza il direttore del Bruno Leoni. «Gli stress test delle autorità europee ci dicono che la banca “ballerebbe” se, per l’appunto, messa sotto stress: ma comunque la banca ha degli attivi. Non è detto che la cosa migliore da fare non sia, semplicemente, liquidarla: ripagare i depositanti, fino a 100 mila euro ciascuno, attingendo agli attivi e poi chiudere la partita. Politicamente, ovviamente, non si può fare».

Nessuno, forse neanche il governo di Mario Draghi, avrebbe la forza politica di intestarsi la liquidazione coatta della banca più antica del mondo. Meglio forse continuare come se niente fosse, in attesa che si palesi un nuovo partner commerciale o che Unicredit ci ripensi e, come teorizzato dal sempre bene informato Dagospia, miri a contendere a Intesa il ruolo di banca di sistema.

Rimane il problema di cosa fare nei prossimi mesi: la banca ha bisogno di liquidità? Chi è disposto a finanziarla e con quali prospettive? Ma, soprattutto, a chi gioverebbe protrarre l’agonia di un istituto di credito sospeso tra un passato recente fatto di fallimenti, scandali e ingerenze politiche e un futuro mai così incerto?

Perché nessuno parla più di azzardo morale?
Sul tavolo rimane poi una questione nient’affatto trascurabile: dopo la crisi del 2008, in molti volevano far pagare il conto alle banche. Occupy era la parola d’ordine a Wall Street, più garbata ma non certo meno risoluta di certe invettive care a un allora popolare comico italiano.

Gli Stati sono intervenuti, hanno finanziato il sistema e salvato le banche, ma come hanno saputo rispondere a quelle piazze? Se il pubblico può intervenire a qualunque costo per salvare il privato, possiamo ancora sperare che il sistema sia incentivato a mantenersi in salute con le proprie forze? «Non si parla più di azzardo morale», conclude Mingardi, «perché il comune sentire nell’Italia di oggi è che nessuna banca debba poter fallire. Vedremo col tempo se questa idea è compatibile con una gestione prudente degli istituti di credito».

da Tempi, 1 novembre 2021

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