Solo il 20% delle opere d’arte italiane è esposto al pubblico, l’80 % del patrimonio è «dimenticato» nei magazzini in attesa di venire alla luce. Ma perché questo accada c’è una sola strada: liberare i musei dalla burocrazia
I musei italiani sono vittime della «sindrome di Christo». Lui (Christo Javúev nato a Gabrovo, in Bulgaria, il 13 giugno 1935 e morto a New York il 31 maggio 2020) è noto al grande pubblico per essere l’artefice della Land art declinata attraverso la genialità della natura «imballata» e l’originalità delle opere «impacchettate». Il suo è un raffinato gioco intellettuale teso provocatoriamente a lanciare un messaggio: attenzione, ci accorgiamo del bello che ci circonda solo quando qualcuno lo «nega» alla nostra vista. Da qui l’idea che lo ha fatto entrare nella Storia dell’Arte del ‘900: «nascondere» momentaneamente paesaggi iconici e celebri monumenti sotto enormi teli. La gente passa, osserva e si accorge che qualcosa gli è stata «sottratta», capendo finalmente il valore incommensurabile di ciò che, fino al giorno prima, guardava senza vedere. E così, quando il telo di lì a poco verrà tolto, il processo artistico di autocoscienza si compirà: il disvelamento permette di apprezzare la meraviglia che era sempre stata sotto gli occhi dell’osservatore, occhi chiusi, e «riaperti» paradossalmente solo grazie a un gigantesco telo coprente.
E’ questa, per i musei del nostro Paese, la metafora che meglio fotografa la realtà dei tesori «nascosti» o «invisibili»: vale a dire quell’enorme quantità di opere d’arte (quadri, sculture, statue, arazzi, incunaboli, antichi gioielli, reperti archeologici, ecc.) celati nei depositi negandoli alla fruizione del pubblico. Eccolo l’immaginario «telo» adagiato sul patrimonio più ricco del mondo. È qui in Italia. Peccato però che la «sindrome di Christo» non ci permetta di goderlo. Quel «telo» è infatti da sempre inamovibile. Il fenomeno nel corso degli anni ha assunto proporzioni sempre più ampie. La realtà è che quanto esposto nei musei non è che la punta dell’iceberg. «I depositi dei musei sono luoghi onirici, sospesi in un’atmosfera di attesa quasi trascendentale», sostengono Filippo Cosmelli (storico dell’arte) e Daniela Bianco (architetta), autori di un «Grand Tour» (bibliografico) nella «più grande collezione d’arte che non avete mai visto». E dietro quel «non» c’è tutto il fascino (e la denuncia) del loro libro «Il tesoro invisibile» (Utet).
Scrivono gli autori: «Nei depositi dei musei, nascoste allo sguardo del grande pubblico, sono conservate migliaia di opere di inestimabile valore. Dipinti, incisioni, sculture, gioielli, documenti antichi e oggetti simbolici capaci di restituirci il sapore di epoche lontane, giacciono invisibili ai milioni di turisti che ogni anno visitano il nostro paese». La coppia (anche nella vita privata) Cosmelli-Bianco ci apre le porte di questi «luoghi segreti» a caccia di capolavori nascosti, guidandoci negli archivi segreti del Vaticano, tra gli scavi di Oplontis, per le sale di Palazzo Barberini a Roma o Palazzo Mocenigo a Venezia; obiettivo: ricomporre «un’incredibile collezione dimenticata». «Alcune di queste opere – spiegano gli esperti – non sono esposte per preservarne l’integrità, per proteggerle da sbalzi di temperatura o dal rischio di venire danneggiate, altre semplicemente non trovano posto tra le migliaia di pezzi che compongono il patrimonio storico artistico accessibile a turisti e studiosi. Ma tutte meriterebbero di essere viste e apprezzate».
Qualche esempio tra le centinaia possibili? Dall’Uomo vitruviano di Leonardo, conservato in un’ala chiusa al pubblico delle Gallerie dell’Accademia a Venezia, alla collezione di tarocchi della Pinacoteca di Brera a Milano; dal certificato di nascita di Caravaggio alle vertiginose scarpe con i tacchi con cui le donne veneziane attraversavano le calli nel Seicento; fino alle incisioni di Piranesi custodite nel deposito blindato della Calcografia nazionale a Roma, proprio sotto la Fontana di Trevi. Il lavoro di Cosmelli e Bianco (fondatori della società If Experience), apprezzabile sotto il profilo analitico e descrittivo, lascia però inevasa una domanda-chiave: come si può affrontare l’emergenza del «tesoro invisibile»? Cioè in che modo l’intero patrimonio artistico presente sul nostro territorio nazionale (che poi – ricordiamolo – rappresenta la parte più rilevante del patrimonio artistico mondiale) può entrare nella disponibilità dei visitatori italiani e stranieri?
Su questo fronte vengono in soccorso una serie di studi condotti nel corso degli anni dall’Istituto Bruno Leoni. Tra i più ricchi di risposte e possibili soluzioni va citato «Un patrimonio invisibile e inaccessibile. Idee per dare valore ai depositi dei musei statali» curato da Maurizio Carmignani, Filippo Cavazzoni e Nina Però. Spiegano i tre autori: «Individuare una policy di valorizzazione dei “tesori invisibili” non è facile in un Paese come l’Italia in cui i beni culturali sono capillarmente diffusi sull’intero territorio nazionale e quindi si manifesta l’urgenza di un intervento radicale». Qualche numero può aiutarci a capire meglio: «A fianco di un patrimonio poco conosciuto e poco fruito – sottolineano i ricercatori – se ne cela un altro di cui si ignora la composizione e la quantità: si tratta di quello stipato nei magazzini dei musei. Da quanto scritto dal Direttore della Galleria degli Uffizi si apprende, ad esempio, che il museo fiorentino, su una superficie totale di 6mila metri quadri e all’interno di 55 sale, espone 1.835 opere. Quelle conservate nei depositi sono 2.300. Le opere esposte rappresentano pertanto poco più del 44% del totale delle opere possedute». E quello degli Uffizi non è un caso eccezionale: tale «proporzione» rappresenta infatti il dato numerico della maggior parte dei musei italiani e in alcuni casi il rapporto statistico tra opere esposte e opere «nascoste» è ancor più penalizzante, 20 per cento «visibile» contro 1’80 per cento «invisibile».
Ma esiste, all’estero, un modello virtuoso di valorizzazione dei «tesori invisibili» a cui ispirarsi? La risposta è «sì». Da anni assistiamo infatti a iniziative per rendere accessibile al pubblico il maggior numero di oggetti d’arte «depositati» nei musei. Una di queste è rappresentata dagli «open storages». Si tratta di «veri e propri magazzini che, a differenza dei depositi dei musei tradizionali, sono liberamente accessibili dal pubblico». Ad esempio, fin dal 2006, il Birmingham Museum and the Art Gallery (uno dei maggiori musei d’Inghilterra) ha inaugurato il Museum Collections Centre, una sorta di «open storage che permette al pubblico di visitare più dell’80% delle opere immagazzinate nel deposito del museo».
Si potrebbe mutuare questa soluzione anche nei nostri musei? Al momento le norme non lo consentono. E ciò per due ragioni strutturali: la limitata (praticamente nulla) autonomia dei musei statali e l’inalienabilità del patrimonio. Nel primo caso, i ricavi prodotti da un museo statale prendono obbligatoriamente la via che porta al ministero del Tesoro, senza quindi la possibilità di un reinvestimento interno alla stessa struttura museale che li ha determinati; nel secondo, la normativa non consente la vendita di ciò che fa parte di collezioni pubbliche. Una situazione bloccata che determina nell’80 per cento dei musei una funzione dei depositi esclusivamente a scopo «conservativo», vale a dire che i «beni» in essi contenuti rappresentano la «riserva del museo». In una percentuale residuale di casi (non superiore al 10 per cento) i «magazzini» restano sì «fruibili», ma solo per gli studiosi a fini di ricerca accademica: autorizzazioni che vengono concesse con il contagocce e solo dopo complesse procedure burocratiche. Insomma, un meccanismo che lascia escluso il grande pubblico.
«Da qui l’esigenza – spiegano i ricercatori dell’Istituto Bruno Leoni – che anche i musei italiani si trasformino in soggetti più indipendenti dal punto di vista della gestione. Non c’è bisogno che vengano interamente privatizzati, ma dovrebbero essere soggetti alla sola supervisione generale da parte dello Stato. Dovrebbe essere concessa ai musei almeno la completa sovranità sul proprio budget, in maniera tale che possano vendere opere d’arte e usare i conseguenti ricavi liberamente per comprare altre opere, per interventi di conservazione e restauro, per le mostre e altre attività». Non ultima quella di acquisire e gestire nuovi spazi. Obiettivo: togliere il velo dai loro tesori invisibili. In nome di Christo. Ma, soprattutto, degli italiani appassionati d’arte.
da Il Giornale, 27 dicembre 2021