Nazione come prodotto ideologico

Recensione del libro di Elie Kedourie "Nazionalismo", a cura di Alberto Mingardi (Liberilibri, 2021)

3 Marzo 2022

L’indice dei Libri del mese

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Gli storici sanno che il 1983 fu un anno fecondo per la letteratura sul nazionalismo: vi apparvero Imagined Communities di Benedict Anderson (manifestolibri, 2009; Laterza, 2018), The Invention of Tradition a cura di Eric Hobsbawn e Terence Ranger (Einaudi, 1987) e Nations and Nationalism di Ernest Gellner (Editori Riuniti, 1997) tutte opere tradotte e destinate a influenzare la storiografia italiana. Nonostante significative differenze, questi studi segnavano una svolta, concordando a) nel considerare la nazione un inevitabile prodotto della modernità e qualcosa d’impensabile in società premoderne, b) nel porla in connessione con le trasformazioni sociali indotte dal printcapitalism, dall’industrializzazione e dalla democratizzazione, c) nel concepirla non come una comunità concreta ma come un’astrazione collettiva generata da élite intellettuali e stabilizzata mediante simbologie e rituali, d) nel negare l’esistenza di criteri definitori oggettivi e nel ridurla a una somma di individui che si considerano appartenenti a essa, e) infine nel considerare il nazionalismo un’ideologia che rivendica o difende il principio di autodeterminazione politica dello stato sovrano.

La fortuna che queste opere rapidamente conobbero ha oscurato i meriti di alcuni precedenti lavori. E fra le vittime illustri va annoverato Nazionalismo (1960) di Elie Kedourie, un classico che certo deve la sua particolare penetrazione all’inusuale angolo prospettico da cui la sua ricerca è nata – non l’osservatorio europeo ma l’invenzione di artificiose identità nazionali nell’area mediorientale – e che anche per questo è rimasto un po’ ai margini della storiografia sul nazionalismo (non per Gellner, suo collega alla London School of Economics, che però propose una chiave di lettura alternativa, volta a valorizzare le precondizioni socio-economiche del fenomeno).

Elie Kedourie (1926-1992) era nato infatti a Baghdad in una delle più importanti enclave dell’ebraismo mesopotamico e solo nel 1947 si sarebbe trasferito in Gran Bretagna per compiervi gli studi presso la LSE, dove avrebbe poi svolto la sua attività di docente. Il libro, frutto della rielaborazione di un ciclo di lezioni, si colloca nella stagione della decolonizzazione, in cui, screditata e delegittimata in Europa a causa delle sue esasperazioni totalitarie, l’idea di nazione si trova sorprendentemente a godere nel resto del mondo di un successo foriero di tragedie. Ed è questo che contribuisce a spiegarne la radicalità dell’assunto, la messa in discussione della razionalità e legittimità del principio di autodeterminazione nazionale: “Il mondo è troppo vario e diverso per le rigide classificazioni dell’antropologia nazionalista”.

Il libro rientra a pieno diritto in quella temperie post-totalitaria in cui si sono moltiplicati i processi alle idee (e ai “precursori” di idee “aberranti”): dalla requisitoria contro Platone, Hegel e Marx condotta da Popper in The Open Society and Its Enemies (1945: Armando, 1973 e 1974), alla messa sotto accusa di Rousseau da parte di Jacob Talmon in Totalitarian Democracy (1952: il Mulino, 1967) e alla critica radicale di Platone in Vita activa di Hannah Arendt (1958: Bompiani, 1964), per citare soltanto i libri più fortunati.

Più che entrare nel vivo del dibattito sociologico sul nazionalismo il saggio di Kedourie, muovendo su un sentiero già tracciato da Hans Kohn in The Idea of Nationalism (1944: La Nuova Italia, 1956) affronta infatti la questione filosofica della responsabilità delle idee, assumendola nella configurazione per l’autore più ardua, cioè a partire dalla dottrina morale di Kant (un po’ a sorpresa è il filosofo di Koenigsberg e non Hegel a essere preso a bersaglio). La tesi riguarda il trapasso dal concetto di autodeterminazione (morale) del singolo al principio (politico) di autodeterminazione nazionale. Un’idea, contestata sì da molti, ma che sarebbe stata ripresa da Isaiah Berlin in una celebre lecture tenuta a New Dehli nel 1972, dove si ribadisce, con gli stessi argomenti, che “L’intero linguaggio dell’ideologia liberale – a cui Berlin riconduce anche il primo nazionalismo e socialista degli ultimi due secoli – ha il suo luogo d’origine in questa appassionata difesa dell’autodeterminazione” (Il senso della realtà, Adelphi, 1998).

Già per Kant un soggetto incapace di autodeterminazione non è un essere morale; ma trasponendo senza differenziare questo assunto dall’individuo al collettivo, Fichte e i romantici avrebbero fatto delle nazioni soggetti morali, rispetto ai quali gli individui erano obbligati da un vincolo di lealtà assoluta. Nell’immaginario nazionalista, argomentava Kedourie, all’idea di autodeterminazione si era aggiunta l’enfasi (questa di derivazione herderiana) sull’irriducibilità delle tradizioni e sulla diversità identitaria. Si potrebbe osservare che la chiave di lettura non è originale, consiste infatti nel documentato sviluppo di un’intuizione di Heinrich Heine, che in un suo celebre saggio del 1832 sulla religione e la filosofia in Germania aveva denunciato con accenti sarcastici il “fanatico volontarismo” dei kantiani e dei “fichrian i armati”.

Kedourie non è infatti interessato a indagare le ragioni strutturali di quel fanatismo, ma a ricondurre il senso d’inferiorità e il risentimento dei nazionalisti all’esperienza di frustrazione del ceto marginalizzato degli intellettuali europei (in particolare continentali e soprattutto tedeschi): “Gli insediamenti etici kantiani (…) resero popolare presso le classi intellettuali tedesche un nuovo temperamento”.

Alla traduzione del volumetto Alberto Mingardi ha preposto un’ampia e documentatissima introduzione, il cui intento è non solo guidare nella lettura del testo quanto fornire una biografia dell’autore, illuminare il suo composito retroterra culturale e collocare l’opera nel contesto del dibattito postbellico sul nazionalismo. Ne è così risultato un saggio su quel milieu conservatore inglese del Novecento che in campo storiografico avrebbe espresso in Lewis Namier il suo rappresentante forse più autentico (a onta delle sue origini nell’ebraismo polacco) e in ambito filosofico avrebbe avuto in Michael Oakeshott la sua guida discreta ma influente.

A Namier, e non solo al suo Nationality and Liberty (1949), ma al saggio 1848, The Revolution of the Intellectuals (1944), Kedourie sarebbe stato debitore della sua sociologia del ceto intellettuale. Da Oakeshott, l’autore di Rationalism in Politics (1944: IBL Libri 2013), avrebbe tratto più in generale fondamentali intuizioni sulla comprensione dell’agire umano nella storia. E ancora: da entrambi avrebbe derivato il suo orientamento scettico nei confronti delle fedi politiche e anche un pregiudizio favorevole sulla nazione britannica, ritenuta modello di “associazione civile” refrattaria al fanatismo nazionalista.

A distanza di tanti decenni il libro non sembra aver perso né vigore analitico né capacità di affinamento diagnostico. Apprestando a pochi mesi dalla sua prematura scomparsa (1992) una nuova introduzione alla quarta edizione del libro, Kedourie scriveva: “Come per l’acqua, il potere trova sempre il suo livello. Come il sistema messo a punto a Versailles dimostrò di non poter proteggere gli Stati che erano succeduti all’Impero austroungarico dalla potenza tedesca non appena la Germania cominciò a flettere i propri muscoli nel 1933, così le Nazioni Unite non hanno la forza di evitare che la Russia allunghi le mani su possedimenti che un tempo erano degli zar e poi sono divenuti sovietici”. Come spesso accade, il de te fabula narratur è un malinconico accompagnamento delle ricostruzioni storiche.

da L’Indice dei libri del mese, 3 marzo 2022

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