La nostra Costituzione ha bisogne di modifiche, in particolare nell'organizzazione dei poteri costituzionali
Secondo il girondino Condorcet, ogni 20 anni le Costituzioni dovevano essere riviste da una Convenzione nazionale. Condorcet, si dirà, era un rivoluzionario tutto d’un pezzo. Ebbene, anche in un dotto scambio di idee tra due uomini del primo establishment americano come Thomas Jefferson e James Madison, ambiente nel quale nasce la pratica della moderna democrazia rappresentativa, si legge la preoccupazione di dare una scadenza alle Costituzioni, individuata da Jefferson in 19 anni.
Certo, a quei tempi la durata media della vita era di 40 anni, ma il messaggio sostanziale, in entrambi i casi, è che le Costituzioni sono un patto fondante di e in un determinato momento storico. Sacralizzarle farebbe perdere loro l’aderenza alla realtà, con la conseguenza che la realtà troverebbe da sé il modo di adeguarvisi. Lo si vede nel modo in cui vengono interpretate in maniera creativa l’antica Costituzione statunitense così come la nostra, che, anche se più giovane, da ormai trent’anni è un abito stretto per governi che vogliono essere adulti.
La forma di governo sottostante la nostra Carta non è adeguata né a descrivere la realtà di governo né a disciplinarla in maniera coerente con una corretta separazione dei poteri in un moderno sistema democratico. Il parlamento, come noto, non è più il centro di ideazione della politica legislativa. Ma non riesce nemmeno ad esercitare una funzione di controllo del governo. Lo dimostrano, non da quest’anno, le dinamiche di approvazione al buio della legge di bilancio.
Il governo è forte nei poteri acquisiti, spesso oltre se non contro la Costituzione, come avviene nell’abuso della decretazione d’urgenza o della questione di fiducia. È però effimero nella durata e fragile nella compattezza. Come un cristallo, la sua solidità è solo apparente, ma dipende più da una debolezza dei legami dentro la maggioranza che non con il parlamento. Tra i due litiganti, il Presidente della Repubblica regna e governa: il consecutivo doppio mandato agli ultimi due Presidenti Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella ha consentito ciò che si riteneva impossibile finché non è accaduto: i Presidenti della Repubblica potranno restare al Quirinale per un tempo degno di un re e non si vede perché, una volta ammesso il bis, non si possa essere ammettere anche il ter.
La Costituzione, che quest’anno ha celebrato i 75 anni, ha il fascino anche dell’età: più matura e sfida il tempo più se ne apprezzano persino le rughe. Ciò non toglie che abbia bisogno di cure, in particolare con riferimento all’organizzazione dei poteri costituzionali. Il fallimento delle Bicamerali e delle grandi revisioni del 2006 e del 2016 e il buon esito, invece, delle riforme molto specifiche (già 4 negli ultimi tre anni) mostrano l’ovvio: cambiare la Costituzione si può, ma è meglio farlo in maniera puntuale, così da non impegnare né le forze politiche né eventualmente gli elettori alla decisione, per quanto falsa, di tradire la Costituzione più bella del mondo.
Le riforme costituzionali non si pesano in caratteri. Questo punto è stato compreso dal presidente Meloni e da chi ha lavorato alla proposta, a partire dal ministro Casellati. Alla nostra forma di governo servono pochi, essenziali interventi: evitare che il Parlamento diventi definitivamente il fantasma di se stesso; consentire al governo di avere una forza intrinseca e una compattezza interna; restituire ai cittadini la scelta del titolare dell’indirizzo politico e riaffermare la responsabilità di governare.
Il governo di Giorgia Meloni ritiene che tutto ciò non richieda necessariamente una riforma presidenzialista, ma sia compatibile con il premierato. La proposta presentata alle Camere, condivisibile nelle intenzioni, raggiungerebbe però risultati paradossali che sono stati ampiamente, anche in questa sede, evidenziati. La stessa maggioranza di governo ne è consapevole ed è anzi possibile, se le dinamiche politiche avessero una loro razionalità, che la riforma sia stato volutamente offerta alle Camere con beneficio di emendamento, per allargarne il consenso al momento del voto.
L’ipotesi proposta da Giorgia Meloni e da Maria Elisabetta Alberti Casellati avrebbe invece una sua coerenza rispetto agli obiettivi dichiarati se fosse modificata nel senso di rafforzare il Presidente del Consiglio non solo all’atto dell’investitura, ma nell’esercizio delle sue funzioni. Se non si vuole correre il rischio di avere presidenti che continuino ad essere deboli nelle attribuzioni, si dovrebbero rivedere tre punti: le modalità di individuazione del premier, la previsione del potere di revoca dei ministri, l’intestazione del potere di scioglimento.
Quest’ultimo, in particolare, potrebbe essere rivisto, prevedendo possibilità di mantenere la legislatura e formare un nuovo governo anche in caso di dimissioni del primo ministro indicato dagli elettori, salvo che sia egli stesso a chiedere di tornare al voto. A lui, e quindi al titolare dell’indirizzo politico prescelto dal corpo elettorale, spetterebbe la parola definitiva sulla vitalità della legislatura e la possibilità di individuare una nuova maggioranza. Di conseguenza, l’investitura del premier dovrebbe essere indiretta, tramite designazione sulla scheda elettorale, per evitare esiti contraddittori delle crisi di governo rispetto alla volontà emersa dal voto popolare e per rendere il mantenimento del rapporto di fiducia più coerente di quanto non sia nell’attuale proposta.
La nomina e la revoca dei ministri, come il decreto di scioglimento delle Camere continuerebbero a richiedere la controfirma del capo dello Stato. In caso di crisi del governo uscito dalla consultazione elettorale, ove non si proceda allo scioglimento delle Camere, egli manterrebbe il potere di indicare un nuovo capo del governo. Al Presidente della Repubblica spetterebbe quindi, come richiede la Carta, il ruolo fondamentale di garante della Costituzione.
da La Stampa, 27 dicembre 2023