Nel futuro più Roma e meno Svizzera

La riforma del Senato di federale ha solo il nome. Segna la fine del decentramento delle competenze e delle collaborazioni con Paesi confinanti che vent'anni fa aveva portato alla nascita della Regio Insubrica in grande difficoltà

4 Febbraio 2016

La Provincia

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Con la approvazione da parte del parlamento nei giorni scorsi si è compiuto un passo decisivo verso quella riforma costituzionale che non solo modifica il ruolo e la composizione della Camera alta, ma soprattutto interviene in maniera significativa in senso antifederalista, attribuendo interamente allo Stato alcune competenze che in precedenza esso condivideva con gli enti locali e operando un nuovo accentramento dei poteri.

Fortemente voluta da Matteo Renzi questa revisione interpreta gli umori diffusisi negli ultimi anni all’interno della classe dirigente italiana (burocrazia e non solo), sempre più contraria a ogni prospettiva federale. Mentre negli anni Novanta l’emergere della Lega aveva indotto a scoprire le buone ragioni dell’autogoverno e la necessità di responsabilizzare gli amministratori delle comunità locali, in seguito lo scenario è mutato. Non soltanto la Lega ha scelto di darsi un profilo nazionale, attenuando il suo ancoraggio con il Nord, ma soprattutto ciò che è più importante si è assistito all’ imporsi di una visione essenzialmente tecnocratica del rapporto tra Roma e la periferia.

Il potere della capitale
La modifica costituzionale governata con decisione dal ministro Maria Elena Boschi archivia ogni illusione di poter realizzare in Italia un qualche federalismo restando entro la presente struttura costituzionale. Nonostante i proclami anche il Senato ha ben poco di “federale”, dato che nei Paesi di tradizione autenticamente federale -dalla Svizzera agli Stati Uniti- esso è composto da due rappresentanti per cantone (o stato): e se da noi non si è minimamente presa in considerazione questa eventualità è perché un Senato federale è possibile solo in un ordinamento in cui il potere della capitale è contenuto e ogni realtà federata vuole sentirsi garantita con eguale rappresentanza. Un Senato che si vuole federale entro un’Italia che accentra i poteri è un controsenso, una fumisteria, un gioco di parole.
D’altra parte in tutti questi anni nulla ha scalfito la struttura di uno Stato costruito sulla falsariga del modello francese, forgiato da logiche prima assolutistiche e poi giacobine.

Capacità di spesa
Nell’ultimo quarto di secolo l’Italia “decentrata” ha delegato alla periferia una significativa capacità di spesa (si pensi alla sanità) oppure ha assegnato alle regioni le risorse derivanti da taluni tributi (è il caso dell’Irap),senza però mai dirigersi verso un sistema fiscale concorrenziale, in cui ogni ente vive di imposte di propria determinazione, decide liberamente come spendere il denaro che raccoglie, compete con altri governi del medesimo livello per attirare imprese e capitali.
Quello che si è costruito in questi anni, invece, è una specie di decentramento della spesa, basato su una redistribuzione massiccia che penalizza primariamente Lombardia, Veneto ed Emilia; e -quel che è più grave- non vi è rapporto diretto tra entrate e uscite. Una simile struttura poteva solo incitare ad allargare i cordoni della borsa, moltiplicando gli sprechi e contribuendo ad aggravare il quadro della finanza pubblica e del debito nazionale.
Constatato tutto ciò, ci si è illusi di poter governare ogni cosa dal centro, grazie alla macchina politico-burocratica romana.
La decisione del governo Renzi di mettere in costituzione i costi standard conferma l’abbandono di ogni ipotesi federalista, che dia autonomia d’azione agli enti locali e scommetta sui benefici della concorrenza istituzionale. Questo neocentralismo che vuole impedire alle regioni sprecone di continuare a operare così sembra ragionevole, ma non lo è. Si regge su un ragionamento di breve termine che, nella migliore delle ipotesi, può costringere qualche amministratore a un comportamento meno irresponsabile, ma non predispone quell’ ordinamento che -sulla lunga distanza- può aiutare a sviluppare davvero una buona amministrazione.

È sufficiente osservare quanto avviene in Svizzera per comprendere come stanno le cose. Se in linea di massima la gestione degli enti locali ticinesi è in effetti migliore di quella delle comunità lombarde ciò si deve primariamente al fatto che un ordine politico basato su autogoverno e competizione istituzionale ha spinto le classi politiche locali ad amministrare ogni attività in economia, copiare le esperienze migliori, prestare più attenzione ai bilanci, evitare una crescita eccessiva delle imposte.
Nel contesto elvetico un dispositivo come i costi standard non è immaginabile, perché il federalismo confida nella concorrenza tra i governi e in quei meccanismi di responsabilizzazione che discendono dall’avvicinare il più possibile le entrare e le uscite.

La visione del 1995
L’Italia resta invece un sistema statuale basato sulla finanza derivata: dove il centro decide e tassa, organizza e redistribuisce. Ed è in questo quadro generale che s’inserisce anche la triste vicenda della Regio Insubria, eloquente come una cartina di tornasole.
Se nelle scorse scorse settimane è sembrato che questa realtà transfrontaliera fosse sull’orlo della disfatta, poiché il Canton Ticino aveva protestato contro i ritardati contributi delle province italiane, al di là delle ragioni specifiche tale crisi istituzionale segnala un problema più generale: e cioè proprio quel cambio di paradigma culturale che ha caratterizzato la società italiana negli ultimi due decenni.
L’euroregione italo-svizzera era nata nel 1995, in un momento storico che poteva far pensare che l’esperienza dello Stato nazionale italiano fosse declinante e che tutto questo potesse aiutare a sviluppare nuove e più intense relazioni tra le popolazioni di questa area di confine: oltre al Ticino, una parte della Lombardia e del Piemonte.
La prospettiva che a metà anni Novanta si poteva intravedere era quella di un’Italia che riscopriva la propria storia localista e municipale, abbandonando la pretesa di governare tutto da Roma e lasciando che le varie comunità si amministrassero da sé: decidendo imposte e regole, ma anche sottraendo a Roma una serie di materie. Con un’Italia disposta ad abbandonare la propria struttura prefettizia, creando governi locali vincolati dai meccanismi concorrenziali, il Canton Ticino avrebbe potuto interagire assai bene. In questo senso la Regio era un segnale lanciato verso una prospettiva nuova, post-nazionale, più aperta al mondo e al superamento delle frontiere, meglio capace di collegare il locale e il globale.

L’Italia romanocentrica
L’impasse conosciuta dalla Regio Insubrica può essere compresa solo a partire da questa nuova temperie: dal venir meno in Italia della volontà di ripensare l’unificazione centralista, restituendo alle comunità locali il diritto di decidere in tema di tasse e competenze. La Regio Insubrica ha ora modificato lo statuto e provvisoriamente risolto le difficoltà con l’adesione delle regioni Lombardia e Piemonte, ma i veri problemi restano, dal momento che lo sfondo resta quello di un’Italia sempre più prigioniera di miti tecnocratici e incapace di accettare il diritto delle popolazioni a decidere sul proprio futuro.
Contro quanto si è a lungo sperato, nei prossimi anni la linea di confine tra Italia e Svizzera potrebbe vedere un rafforzamento delle barriere e delle chiusure: a tutto danno di chi vive al di qua e là di là della dogana di Brogeda.

Da La Provincia, 17 gennaio 2016

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