11 Aprile 2023
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Diritto e Regolamentazione
Sono passati dieci anni tra la morte di Margaret Thatcher, a ottantotto anni l’8 aprile 2013, e quella di Nigel Lawson, a novantuno il 3 aprile 2023, nel mentre l’Inghilterra è uscita dall’Unione europea, c’è stata una pandemia e la lunga stagione di debito e denaro facile attraversa una fase di assestamento. Lawson fu cancelliere dello scacchiere, cioè ministro del Tesoro, fra il 1983 e il 1989. Oggi più noto come padre di Nigella Lawson e per le posizioni scettiche sulle politiche di contrasto ai cambiamenti climatici, Lawson è stato un ministro che ha fatto la storia e come tale verrà ricordato. Si era formato a Oxford, in uno di quei corsi di PPE (Filosofia, Scienza della Politica ed Economia) che sfornano buona parte della classe dirigente britannica. Fece il giornalista, lavorando per il Financial Times e per il Telegraph, per poi diventare direttore dello Spectator.
Fra i quarantenni degli anni Settanta, in Inghilterra, ci fu una fenomenale generazione di giornalisti economici (pensiamo solo a Samuel Brittan), che in qualche modo preparò le grandi riforme della Thatcher. Lawson non si accontentò di seminare: arò e raccolse. Fu prima ministro dell’Energia e poi, dal 1983, ministro del Tesoro. Se il suo predecessore Geoffrey Howe aveva dovuto far ingollare l’austerità a un Paese in crisi, dopo l’«inverno dello scontento», Lawson si trovò sul ponte di comando dopo la guerra delle Falklands, che aveva rinvigorito la popolarità del primo ministro. Questo gli consentì un buon margine di libertà, anche rispetto alla stessa Thatcher.
Lawson fu di fatto l’inventore delle privatizzazioni: prima di allora, la traiettoria ideologica prevalente era andata in un senso solo, quello del passaggio della proprietà delle imprese private in mani pubbliche. Lawson cominciò nel 1981, annunciando la privatizzazione della British National Oil Corporation, che operava nel mare del Nord (poi acquisita da BP) e di alcuni asset di British gas (che sarebbe stata venduta nel 1987). Giunto al numero 11 di Downing Street, enunciò la sua dottrina: nessuna industria dovrebbe rimanere di proprietà dello Stato a meno che non ci siano argomenti chiari e incontrovertibili perché quello debba essere il caso. Ovvero, come disse pochi anni dopo, the business of government is not the government of business, l’impresa del governo non sta nel governare l’impresa.
Nella sua biografia, autorizzata e postuma, della signora Thatcher, Charles Moore rammenta che per quanto le privatizzazioni siano state l’esportazione di maggior successo del thatcherismo, l’elemento della sua politica economica che più è stato ripreso anche in contesti assai diversi (basti pensare che la Thatcher italiana, sotto questo profilo, è stato Romano Prodi), Margaret Thatcher da principio non abbracciò l’idea con grande entusiasmo. Lawson spiegava di averla trovata «un po’ freddina», mentre altri protagonisti di quella stagione ricordano come Thatcher, a dispetto di quell’immagine pubblica alla quale lei stessa finì per affezionarsi, agiva sulla base di considerazioni pragmatiche. A preoccuparla era la gestione, regolarmente disastrosa, delle aziende nazionalizzate e per quello la privatizzazione le offrì, più che un principio di carattere generale, una soluzione pratica: creare se non altro le condizioni per un management migliore, in virtù dell’influenza degli azionisti privati. Altri ancora sottolineano come Thatcher avrebbe preferito privatizzazioni più «parcellizzate», per fare della Gran Bretagna una «società di proprietari».
Non amava la stessa parola, «privatizzazione», una piccola ferita alla lingua di Shakespeare, non volle privatizzare le poste, temeva gli effetti delle cessioni di aziende pubbliche sui mercati energetici: per questo Lawson, con senso pratico, s’inventò pure l’idea della golden share, per mantenere in extremis il controllo pubblico, e di questa invenzione noi italiani abbiamo di che volergliene. Nondimeno, nelle sue memorie Thatcher scrive che le privatizzazioni sono lo strumento essenziale per «qualsiasi politica economica che voglia riguadagnare terreno alla libertà economica». Soprattutto, Lawson lo scelse lei, perfettamente consapevole di chi aveva davanti.
Il candidato dell’establishment per la stessa posizione era l’allora ministro dell’Industria, persona dal tratto molto più moderato. Lawson era un outsider del Partito, inviso alle sue componenti più tradizionali, legate alla vecchia aristocrazia, devote alla liturgia dello Stato. Rimase un outsider anche al potere, operando con formidabile coerenza e non innamorandosi, come spesso accade ai non-politici quando diventano politici, di tutte le leve che aveva trovato nella stanza dei bottoni. Thatcher, insomma, voleva un liberista ministro del Tesoro e lo ebbe.
Lawson vendette Rolls Royce, British Telecom, British Airways, BP. Semplificò il sistema fiscale e tagliò le tasse. Avrebbe voluto che la sterlina aderisse allo Sme per imbrigliare la banca centrale in un sistema di cambi fissi. La diffidenza per i tedeschi da una parte e l’idea che stavolta fosse in gioco il prestigio nazionale divennero per Thatcher dei chiodi fissi. Il liberismo si scontrò con l’amor patrio, e perse. Ma conta anche come si esce di scena e Lawson dovette sloggiare a causa del suo rigore intellettuale e della devozione alle proprie idee. Quanti sono i ministri che possono dire lo stesso?
da L’Economia del Corriere della Sera, 11 aprile 2023