Sono passati dieci giorni dalla manifestazione di Milano che ha festeggiato l’apertura dell’Expo mettendo a ferro e fuoco alcune vie della città. L’ordine e il senso di civiltà sembrano aver superato quella stolida violenza. I milanesi, spugna in mano, hanno provato a ripulire le vie e le facciate dei palazzi. La politica ha biasimato i violenti. Qualcuno è stato fermato dalle forze dell’ordine. Ma le tracce di ciò che è avvenuto, come le scritte sbiadite e a stento cancellate dalle operose mani dei milanesi, restano a dirci ancora qualcosa.
L’intervista a un giovane partecipante, che spiegava di essersi unito al corteo per «fare bordello», ne ha fatto un facile bersaglio di ironia. A suo modo, quell’intervista ha dato dei violenti un’immagine rassicurante: degli esagitati non proprio consapevoli di quanto stavano facendo, sguarniti di ideologia alcuna, passanti per caso e per questo apparentemente meno pericolosi. È stato umano tirare un sospiro di sollievo: non ci sono più i cattivi maestri, al rogo dell’Audi di Via Leopardi non seguiranno episodi peggiori. Alle ordinate manifestazioni è solo per un accidente fortuito, senza testa né coda, che si possono mescolare i disordini.
La violenza è insensata, ma ciò non toglie che gli esseri umani in carne ed ossa hanno bisogno di giustificazioni, di formule più raffinate che diano un perché alla rabbia che sentono dentro. Le idee politiche, spesse volte, si prestano al gioco.
I manifestanti violenti di Milano magari non sanno ripetere la lezione sulle ideologie del Novecento, magari non hanno letto le opere di Marx. Magari non sanno neppure chi erano Marcuse o Althusser. Ma, come si è sentito in varie interviste compresa quella al giovane che voleva «fare bordello», se ritengono tutto sommato accettabile sfasciare le vetrine di una banca, se ritengono di star lì per lottare per chi muore di fame nel mondo, per far parte di una rivoluzione come quelle esaltate dai libri di storia, in una faticosa lotta di classe tra multinazionali del profitto e gente qualunque, è perché rimane forte – nelle scuole e nell’opinione pubblica europea – un rumore di fondo. Il rumore di fondo frutto di anni di egemonia cultura, di attrezzata presa di possesso di scuole ed agenzie del consenso, di costante semina sui giornali.
La società di mercato – le cui istituzioni, per quanto imperfette, hanno garantito a questa parte di mondo 250 anni di progresso e crescita senza precedenti nella storia umana – è ridotta a un coacervo di “diseguaglianze”, è pensata come intrinsecamente ingiusta e per questo rottamabile, a colpi di spranga. Per odiare non serve capire, e nemmeno provarci. I ragazzi che detestano gli stessi simboli di quella prosperità diffusa nella quale sono cresciuti non hanno bisogno di nutrirsi di letture precise. Bastano loro ricordi sbiaditi, lezioni mal digerite a scuola, pregiudizi ereditati in famiglia, echi dei media.
La cultura condiziona anche manifestazioni che di “colto” non sembrano avere nulla. E la cultura in questione è pregiudizialmente e pervicacemente ostile al processo di mercato, alla volontarietà degli scambi, alla libertà d’iniziativa, all’idea di profitto e a quella di proprietà. E’ una cultura egemone, con radici profondissime nella nostra società. Ma non la si può combattere in altro modo se non cercando di divellerne i pregiudizi, provando a raccontare una storia diversa e più vera, spiegando giorno dopo giorno il miracolo della cooperazione fra esseri umani su lunga distanza. Quella cosa che chiamiamo “mercato” e che fa sì che noi continuiamo a beneficiare di una crescente abbondanza di beni e servizi.
L’Istituto Bruno Leoni prova, da dieci anni ormai, a fare proprio questo. A proporre una cultura diversa, a spiegarla con onestà e passione intellettuale, a divellere pregiudizi e a ragionare nel merito delle cose. È uno sforzo enorme, per un istituto piccolo. Sappiamo che servirebbe fare molto altro, sappiamo che servirebbe fare molto di più. Puoi darci una mano a provare a farlo, aiutando la Fondazione Istituto Bruno Leoni con il tuo 5 per mille. Basta inserire sul modello di dichiarazione dei redditi utilizzato, nella sezione relativa alla destinazione del 5 per mille al riquadro “Finanziamento della ricerca scientifica e dell’università”, il nostro codice fiscale 97741100016 e la firma.