Ogni tanto gli errori sono rivelatori. Ad un convegno all’Aquila, la direttrice dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi ha dichiarato che l’evasione «mina il patto sociale, attenua il senso di appartenenza. Gli americani lo avevano capito due secoli fa, con il programma politico del no representation without taxation».
Azzardiamo che se effettivamente di “no representation without taxation” si fosse trattato, la storia sarebbe andata ben diversamente. I coloni americani sarebbero probabilmente stati ben felici di non essere rappresentati, se ciò li avesse liberati dal giogo fiscale inglese. Lo stesso vale per tanti italiani di oggi, anche fra i contribuenti più ligi e leali.
Infatti, ovviamente non di “no representation without taxation” si tratta – ma di “no taxation without representation”. E invertendo l’ordine dei fattori, il risultato cambia ed eccome.
Costretti dalla politica fiscale e mercantile stabilita da un governo e un parlamento sulla cui composizione non avevano voce in capitolo, dalla seconda metà del 1700 i coloni americani cominciarono a manifestare verso Londra segni di insofferenza crescenti sino a dichiarare l’indipendenza.
Nel 1765, lo Stamp Act aveva infatti introdotto una tassa su qualsiasi foglio stampato circolante in America, per sostenere le spese per le truppe stanziate in Nordamerica a difesa delle colonie. I coloni, già insofferenti all’esazione fiscale e alle politiche doganali imposti oltreoceano, rivendicarono con vigore che il Parlamento inglese non poteva imporre tasse a chi non era da esso rappresentato. Era l’inizio dell’indipendenza americana, nel solco della stessa tradizione inglese che, col Bill of Rights, aveva sancito il principio del consenso sull’imposizione fiscale e, quindi, della riserva impositiva ai rappresentanti del popolo. Portando a compimento un senso di estraneità rispetto alla madrepatria dovuto all’assenza di diritto di voto sul Parlamento di Westminster, i coloni davano il via a un’avventura indipendentista che, come spesso succede, ha trovato proprio nella vessazione fiscale la miccia per brillare.
Questa riflessione sul legame tra rappresentanza e tassazione nasce in un contesto e per uno scopo completamente opposto rispetto a quello a cui la direttrice dell’Agenzia delle Entrate ha voluto piegarlo. E infatti l’ha proprio dovuto piegare, girandolo sottosopra. In un dibattito pubblico serio, le parole sono importanti e hanno un peso. Va da sé che indicare al pubblico ludibrio gli untori che diffondono la peste che erode il patto sociale, non è contribuire a un dibattito serio.