Cosa pensano Fedele Confalonieri, James Murdoch e Urbano Cairo dell’euro, dell’immigrazione o dei vaccini? Non lo sappiamo, né ci occupiamo di scoprirlo: i presidenti di Mediaset, Sky Italia e La7 rispondono agli investitori, non al tribunale dell’opinione pubblica. Perché, allora, fanno tanto rumore le posizioni del loro neo-collega Marcello Foa, presidente in pectore della Rai? Foa è un cronista di lungo corso, dirige da anni un gruppo editoriale multimediale – sia pure di dimensioni non comparabili con quelle di viale Mazzini – ed è stato tra i fondatori dell’Osservatorio europeo sul giornalismo; ma ha punti di vista controversi, consonanti con quelli dei partiti che l’hanno intronato – Di Maio ha salutato la sua investitura sollecitando una “rivoluzione culturale” – e qualche scheletro nell’armadio dei tweet: il che, secondo i critici, lo renderebbe inadatto a un ruolo di garanzia.
La televisione di Stato è per tradizione un cavallo che tutti ritengono di poter portare al trotto. Viceversa, l’amara realtà è che la Rai, come ogni società pubblica, appartiene all’esecutivo di turno; e ciò è tanto più vero da quando la riforma della sua governance – voluta dal governo Renzi nel 2015 – ha trasferito le redini dell’azienda dal parlamento al governo-azionista, che di fatto nomina direttamente l’amministratore delegato e il presidente, proponendoli a un consiglio d’amministrazione amico, in cui siedono anche i due soggetti indicati dalla maggioranza parlamentare, per un totale di quattro membri su sette. L’unico contrappeso previsto è il parere della commissione di vigilanza, che deve confermare l’indicazione del presidente con almeno i due terzi dei voti.
Le polemiche sulla figura di Foa, dunque, mancano grossolanamente il bersaglio, banalizzando un tema cruciale come quello del controllo politico sulla “principale impresa culturale del paese” e cioè, fuor di metafora, sul più prezioso strumento di propaganda di cui i partiti dispongano. Solo la privatizzazione dell’azienda permetterebbe di recidere questo legame: ma a distanza di oltre vent’anni dal successo del referendum sulla questione – tra i promotori, per ironia della storia, c’era la Lega – e a dispetto della ciclica riapparizione di quella proposta, la proprietà pubblica della Rai appare più salda di sempre.
Eppure, la ragion d’essere economica della tv di Stato non è mai stata così labile: prima l’introduzione della televisione satellitare, poi la transizione dalla tecnica di trasmissione analogica a quella digitale, infine l’avvento della banda larga e lo sviluppo del mercato dell’audiovisivo non lineare, che oggi rappresenta una fetta sempre più generosa di quella che siamo soliti chiamare televisione, hanno determinato la disponibilità di un’offerta d’intrattenimento e informazione ricchissima e in gran parte gratuita, che rende la fornitura di un servizio pubblico dedicato anacronistica. Lo si può confermare, del resto, con un piccolo esperimento mentale: se la Rai non esistesse già, a nessuno verrebbe in mente d’inventarla.
Nel 2017, il gruppo Rai ha fatto registrare ricavi per 2,6 miliardi di euro: i cittadini vi hanno contribuito direttamente per circa 1,8 miliardi attraverso il canone – un tempo il tributo più odiato dagli italiani, ora convenientemente sepolto tra le minuterie della bolletta elettrica, in ossequio ai dogmi dell’illusione finanziaria illustrati da Amilcare Puviani all’inizio del ‘900. Al costo per i contribuenti, si aggiungono circa 800 milioni di risorse drenate dai bilanci degli operatori privati, peraltro in un contesto di mercato pubblicitario declinante da anni. Il tutto a fronte di un servizio che, come si evince dalla stessa consultazione predisposta dal governo Renzi nelle more della riforma, si presenta lacunoso sotto i profili della qualità, dell’indipendenza, della capacità d’innovare.
Anche sorvolando sul potenziale gettito della vendita – nel 2013, ma in una situazione di mercato molto diversa, Mediobanca aveva avanzato una stima di 2,1 miliardi – la privatizzazione risolverebbe entrambe le questioni: da un lato, restituirebbe ai contribuenti circa 2 miliardi l’anno (per inciso, si osservi che il Tesoro trattiene una quota dell’extra-gettito garantito dalla riforma del canone in bolletta); dall’altro, aprirebbe ulteriori margini di crescita per gli operatori privati esistenti, nonché – verosimilmente – per nuovi operatori. Infine, avrebbe il benefico effetto collaterale di mozzare il nodo politico: che è quello di rottamare la macchina del consenso, invece di scannarsi sull’identità di chi sta al volante.
da Forbes, 29 luglio 2018