Il pericolo di nuovi debiti che ci "obbligano" a crescere

La pandemia ha fatto dimenticare i motivi e il problema della spending review

16 Febbraio 2022

Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Politiche pubbliche

A prendere sul serio i politici italiani parrebbe che l’Italia abbia un problema con la sua spesa pubblica così riassumibile: ce n’è troppo poca. Prima della pandemia, abbiamo a lungo discusso di spending review, di meccanismi per mettere ordine nel bilancio dello Stato. I giornali raccontavano sovente gli sprechi riconducibili a un uso improprio del denaro del contribuente. Qualcuno si azzardava a parlare di spesa pubblica «improduttiva»: quella che non alimentava servizi ma aveva la funzione di mantenere consenso e clientele.

La pandemia ha consentito alla nostra classe politica di dimenticarsi completamente di questi dibattiti. Nell’emergenza, andava fatto tutto il possibile, costi quel che costi. Il fatto di essere l’economia europea più colpita, nella crisi Covid, ci è valsa la solidarietà degli altri Stati membri e la parte del leone dei fondi Next Generation Eu. Ci siamo accaparrati 70 miliardi di sovvenzioni e, a differenza di Spagna e Francia, abbiamo scelto di prendere anche tutti i prestiti (123 miliardi) e, non paghi, ci abbiamo aggiunto 31 miliardi di ulteriore debito pubblico.

La spesa pubblica veleggia ormai attorno al 57% del Pil e lo scorso anno ha superato i mille miliardi. Le entrate tributarie sono il 47% del Pil, quindi c’è una quota, consistente, di quanto lo Stato fa che è finanziato prendendo a prestito quattrini. Questi quattrini a un certo punto andranno restituiti: deficit e tasse non sono «alternativi», i debiti di oggi sono le imposte di domani.

Dopo il terribile 2020, quando abbiamo perso nove punti di prodotto interno lordo, lo scorso anno ne abbiamo guadagnati sei e mezzo. L’Italia non cresceva così dall’inizio degli anni Sessanta e per qualcuno questo «rimbalzo» è la prova della bontà di tutto il nostro largheggiare. Nelle scorse settimane, l’inflazione, la crisi energetica e le turbolenze ucraine hanno fatto rivedere al ribasso le previsioni di crescita per quest’anno.

Non siamo stati il solo Paese al mondo a spendere di più per tamponare i danni fatti dal virus. Anche in passato è accaduto che vi fossero momenti nei quali gli Stati aumentavano la propria potenza di fuoco, di solito sulla spinta dell’emergenza. Assunti nuovi poteri e nuove mansioni, è raro che dopo una crisi la politica torni esattamente al punto di partenza. Ma, di solito, a tempesta chetata si cerca di riportare il bilancio pubblico sotto controllo, se non altro per evitare di strangolare il contribuente e di asfissiare l’economia privata.

Finora indebitarci ci è costato poco, grazie alle politiche monetarie della Bce, ma un rialzo dei tassi potrebbe cambiare rapidamente la situazione rendendo molto più gravoso il servizio del debito. Un aumento anche solo di mezzo punto percentuale nel costo medio del debito ci costerebbe più di quella «riduzione delle tasse» di cui abbiamo discusso per settimane in autunno.

Non ci sono solo ragioni di prudenza che militano per un diverso approccio alla spesa. Da una parte, c’è una questione basilare di rispetto dei quattrini del contribuente. È veramente possibile che i circa mille miliardi di spesa pubblica italiana siano tutti impiegati a regola d’arte? Gli sprechi e le rendite, per i quali ci siamo così tanto indignati, sono davvero magicamente spariti?

Dall’altra, ci siamo convinti, negli ultimi anni, che il debito potesse diventare «sostenibile» non perché ci impegnavamo a ridurlo ma perché riuscivamo ad avere una crescita economica più sostenuta. L’idea è problematica, per ragioni intuitive. Se avete un’attività, sapete che è più facile mettere sotto controllo i costi che aumentare le vendite. Fatto sta che siamo condannati a provare a crescere di più. Per farlo, bisogna innovare e aumentare la produttività. Quando lo Stato però assorbe più della metà del prodotto, questo è ancora più difficile: non si può rinunciare a incrementi di produttività in quella fetta di Pil.

Ma lo Stato tende a offrire i suoi servizi, incluse educazione e sanità, in regime di monopolio. Il monopolio, lo sappiamo, porta con sé prezzi più alti, qualità e quantità inferiori, e un monopolio pubblico non è diverso.

Il 2022 sarà un anno difficile ed è possibile che il governo si trovi a fare nuove spese. Sarebbe auspicabile però che reagisse con determinazione alle richieste, che si moltiplicheranno, di scostamenti di bilancio e di nuovi debiti. Inoltre, bisognerebbe che i nuovi stanziamenti fossero valutati almeno rispetto ai risultati attesi. Ogni nuova spesa serve per venire incontro a un nuovo problema, ma che succede se provare a risolverlo ci costa più del problema stesso? Non sempre il gioco vale la candela.

I fautori dello Stato pesante irridono chi rimpiange gli Stati leggeri dell’Ottocento. Se è vero che la dimensione «giusta» dello Stato non corrisponde necessariamente e sempre a un certo livello di spesa pubblica, lo è altrettanto che le spese «necessarie» ieri non lo sono per forza anche domani. Basterebbe che ogni nuova spesa «necessaria» fosse finanziata identificando spese «obsolete» per un valore paragonabile. Non significherebbe certo tornare a uno Stato «leggero» e nemmeno «alleggerire» quello che c’è. Forse però la spesa pubblica sarebbe almeno sempre tarata sulle esigenze del momento. Per spendere meglio dobbiamo ragionare su «come» spendiamo. Ma, per farlo, dobbiamo però accettare che ci siano dei limiti al «quanto».

dal Corriere della Sera, 16 febbraio 2022

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