22 Settembre 2016
La Stampa
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Per Tommaso Moro, sull’isola di Utopia si vestiva tutti alla stessa maniera, non c’era divisione del lavoro, le città erano perfettamente uguali l’una all’altra e quindi non aveva senso spostarsi ma, a scanso di equivoci, era comunque proibito in assenza di apposita autorizzazione. Da allora, le utopie sono sogni di probità e morigeratezza, vagheggiamenti virtuosi contrapposti a un mondo di eccessi, diseguaglianze, decadenza.
C’è una costante. In ogni utopia che si rispetti, i beni terreni, quelli di cui nella vita vera si fa incessantemente commercio, che possono suscitare invidia e destare ammirazione, perdono ogni centralità. Smettono di essere parte dell’identità di ciascuno: solo in questo modo, l’eguaglianza più schietta, quella del saio per tutti, può essere garantita. Non c’è utopia che contempli anche un simulacro di “mercato”. Perché il mercato è sempre il regno del meno peggio, è gli sconti sugli yogurt che si approssimano alla scadenza, la garanzia soddisfatti o rimborsati perché capita che soddisfatti non si sia, le scarpe in saldo e il codice a barre per rispedire ad Amazon la caffettiera arrivata rotta.
L’utopia presuppone un processo di perfezionamento, è una salita dura ma lassù c’è il premio: un’umanità migliore. Il mercato si arrangia. Gli esseri umani son quel che sono, siano produttori oppure consumatori. Al di là dell’apparente nitore delle curve di domanda e di offerta, il mercato altro non è che i loro estenuanti tentativi di offrire qualcosa ad altri, al fine di migliorare la propria condizione. Esiste una “utopia del mercato”? Non è forse un sogno illuministico, l’idea che si possa fare a meno di “regolatori” che non siano il sistema dei prezzi? Il libero mercato sotto certi versi è “utopico” semplicemente perché, oggigiorno, non sta da nessuna parte.
Il trattato commerciale fra Stati Uniti ed Europa, apparso a molti un esercizio di liberismo selvaggio, è in realtà una mastodontica enciclopedia regolatoria. In un mondo nel quale gli stati forniscono istruzioni minuziose circa qualsiasi tipo di produzione, anche allargare il campo di gioco passa per norme e codici. Si sente spesso parlare di “neoliberismo”, ogni tanto persino riferendosi al nostro Paese, e resta l’imbarazzo di non capire che genere di liberismo, neo o paleo che sia, sarebbe compatibile con una spesa pubblica che sfiora la metà del PIL. In un mondo di iperregolamentazione e interventismo, il mercato s’infila dove può.
Non c’è un piano, non c’è un progetto, men che meno un programma politico. Mettersi a scambiare è un esperimento messo in campo da gente naturalmente imperfetta, che a perfezionarsi non pensa granché. Proprio perché come sistema coerente è utopico, nel senso che non sta da nessuna parte, mentre la parola designa qualcosa che viene talmente naturale che ognuno scambia senza bisogno di concettualizzare quel che fa, il mercato è il capro espiatorio ideale.
Dite pure che “fallisce”, e non ci saranno miliardi di consumatori pronti a difendere come un sol uomo le proprie scelte. Il regno del meno peggio non ha gendarmi né fanatici.
Da Origami, settimanale de La Stampa, 28 settembre 2016