9 Febbraio 2017
Il Giornale
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
La categoria del populismo ha in sé qualcosa di sfuggente. Non è facile, in effetti, raggruppare in un medesimo orientamento figure assai diverse come Marine Le Pen, Donald Trump, Nigel Farage, Pablo Iglesias e Beppe Grillo… Questa formula è venuta però ad affermarsi nel momento in cui si è allargata la distanza tra il cittadino qualunque e le istituzioni. Nella loro propaganda i movimenti detti populisti tendono a opporre la società civile e l’establishment.
Quello che Pier Paolo Pasolini chiamò “il Palazzo” è un facile bersaglio per quanti si fanno interpreti del senso comune, dando voce a profonde frustrazioni. Dopo una crescente espansione dei poteri pubblici (che hanno monopolizzato scuola, sanità, pensioni, banche eccetera), chi si candida a dare voce al popolo oggi ha successo: anche in considerazione del fatto che il quadro generale è dominato da inquietudini e paure. In un certo senso, i nodi stanno venendo al pettine. Quando il ceto politico – quella che è stata ribattezzata “la Casta” – controlla più della metà delle risorse prodotte e quando in tal modo soffoca la libera iniziativa di imprese, individui e comunità, la crisi è inevitabile. Ed è su questo dissesto che la nuova politica sta costruendo la sua fortuna.
Il problema non è comunque nella semplice contrapposizione tra élite chiuse nei loro ristretti circoli e movimenti volti a interpretare opinioni diffuse. Se il populismo fosse solo questo, sarebbe da salutare con soddisfazione: quale occasione per un rinnovamento delle istituzioni. Il rischio della fase che stiamo vivendo, però, è legato al sovrapporsi dello sfascio complessivo dei regimi attuali e dell’emergere di gravi difficoltà (economiche e non solo). In tale situazione, infatti, è comprensibile che si affermino prospettive irrazionali – si pensi al sovranismo e pure al rigetto della globalizzazione in nome una nuova autarchia (come se la lezione di David Ricardo fosse passata invano) – che da una crisi generata da una progressiva divinizzazione dello Stato si voglia uscire grazie a un rafforzamento dello Stato medesimo. In questi tempi difficili, allora, è bene cercare di tenere fermi alcuni princìpi (a partire dal primato della persona) e la capacità di ragionare e dialogare. Per respingere l’irrazionalità demagogica dei nuovi Masaniello è quindi opportuno distinguere caso da caso, rifiutando la logica delle élite in declino, per le quali Farage, Le Pen e Trump sono la stessa cosa. Non è così e ogni fenomeno va valutato diversamente.
La Brexit, ad esempio, potrebbe rivelarsi assai più positiva di quanto non si creda se, avendo impedito un’unificazione politico-tecnocratica del Vecchio Continente, dovesse permettere il ritorno a un’Europa delle libertà individuali e degli scambi culturali. Anche lo slogan trumpiano “America first”, se non servirà soltanto a promuovere politiche commerciali autolesionistiche, potrebbe produrre buoni effetti qualora servisse a ridurre la presenza degli Stati Uniti in molti teatri di guerra. E ugualmente positivo sarebbe il populistico successo di rivendicazioni territoriali (a partire dalla Catalogna) che conducano al superamento dello Stato nazionale. Ciò che vi è di pericoloso nel populismo, allora, lo si inizia a sconfiggere guardando la realtà fuori da schemi dogmatici. Riuscendo a relativizzare anche quanto vi è di ideologico nella demonizzazione stessa del populismo.
Da Il Giornale, 9 febbraio 2017