2 Maggio 2022
Il Secolo XIX
Carlo Stagnaro
Direttore Ricerche e Studi
Argomenti / Economia e Mercato
Chi ha ragione? Il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, secondo cui le imprese devono alzare i salari se vogliono accedere agli aiuti governativi? Oppure il suo collega Giancarlo Giorgetti, responsabile dello Sviluppo economico, che paventa l’aggravarsi di una crisi che rischia di travolgere l’intero sistema produttivo?
Per rispondere bisogna mettere in fila i fatti, alcuni dei quali sono legati all’inflazione energetica, mentre altri hanno radici più profonde. Tra i primi, ovviamente, c’è la congiuntura macroeconomica, che punta verso un brusco rallentamento della crescita, se non addirittura una recessione. I rincari senza precedenti dell’energia intaccano i salari reali. Ma il problema di fondo è che questi ultimi sono stagnanti da decenni: e anche nel 2022, a dispetto dei recenti rinnovi contrattuali, la crescita attesa è solo dello 0,8 per cento, contro una perdita di potere d’acquisto stimata attorno al 5 per cento.
Sarebbe facile prendersela con la tirchieria delle imprese. E non sarebbe del tutto infondato: in fondo, se una risorsa è scarsa (il lavoro qualificato) l’unico modo per attirarla è remunerarla adeguatamente. La miopia di molti imprenditori è davvero una parte della storia: ma non la esaurisce. Le imprese, infatti, devono vendere dei prodotti a un prezzo compatibile coi loro costi di produzione. E i costi delle imprese italiane sono alti. Le imprese sono sovente legate a metodi produttivi superati e costosi. Sono troppo piccole per investire e innovare, sottocapitalizzate, restie ad assumersi dei rischi. In un mercato competitivo, molte di esse fallirebbero e sarebbero rimpiazzate da altre più dinamiche. Invece, in Italia i mercati sono vischiosi e la concorrenza non morde abbastanza. E la causa ultima va cercata nella quantità di lacci e lacciuoli.
Le semplificazioni e le liberalizzazioni fanno parte dell’armamentario retorico di tutte le forze politiche, ma all’atto pratico quando si tratta di passare dal dire al fare ben pochi si mostrano coerenti con le promesse elettorali. Secondariamente, tra quello che l’imprenditore spende e quanto il dipendente incassa c’è un terzo incomodo, cioè il fisco. Secondo la Tax Foundation il cuneo fiscale pesa sui salari italiani per circa il 46 per cento dell’ammontare lordo, contro una media Ocse del 34,6 per cento. Non solo il salario non è una variabile indipendente: neppure la fiscalità lo è. Finché non verrà messa in discussione, il dibattito sul costo del lavoro sarà ozioso. Da ultimo, se i salari italiani sono bassi è anche perché c’è un crescente iato tra le competenze dei lavoratori e quelle domandate dal mercato.
Ogni settimana si leggono storie, più o meno aneddotiche, relative all’impossibilità di trovare lavoratori con le qualificazioni necessarie. E tale problema è ulteriormente ingigantito dall’esistenza di una pluralità di strumenti – dal reddito di cittadinanza alla cassa integrazione fino ai pensionamenti anticipati – che sottraggono forza lavoro o, al massimo, creano un implicito incentivo al lavoro irregolare. Insomma: è vero che le imprese dovrebbero anche dare e non solo chiedere, ed è ugualmente vero che mai come oggi esse si trovano strette in una morsa formidabile tra i costi dell’energia, un sistema paese che non funziona e un capitale umano spesso inadeguato.
In questo contesto lo Stato ha un ruolo fondamentale al quale però sembra aver abdicato: disegnare la spesa pubblica in modo tale che sia compatibile con un livello accettabile di pressione fiscale, sburocratizzare l’attività d’impresa e sostenere i lavoratori nelle loro transizioni professionali, offrendo percorsi di formazione e servizi per il collocamento. Nulla di tutto ciò può essere fatto semplicemente distribuendo soldi a pioggia: anzi, la moltiplicazione dei sussidi rischia di esacerbare i problemi che pretenderebbe di risolvere.
da Il Secolo XIX, 2 maggio 2022