Oxfam e quel vizio di guardare ai ricchi per parlar di poveri

Nuovo report-fuffa della ONG, tra errori statistici e censura dei benefici della globalizzazione

17 Gennaio 2017

Il Foglio

Carlo Stagnaro

Direttore Ricerche e Studi

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Che la profezia marxiana sulla progressiva e ineluttabile concentrazione del capitale nelle mani di pochi si stia avverando? Devono averlo pensato in molti, ieri, leggendo i resoconti sul consueto rapporto anti-Davos di Oxfam, significativamente intitolato “Un’economia per il 99 per cento”. La “notizia”, quest’anno, è che nelle mani di otto sole persone si troverebbe altrettanta ricchezza che in quelle di altri 3,75 miliardi individui, ossia la metà più povera dell’umanità. Tutta colpa del neoliberismo, fa va sans dire.

Se davvero il livello di concentrazione della ricchezza fosse questo, sarebbe stupefacente non vedere gli eserciti dei miliardi di poveri dare l’assedio alle ville stralussuose di un pugno di privilegiati. Fortunatamente, le cose non stanno esattamente in questi termini. Oxfam, infatti, usa una metodologia ardita, che porta a conclusioni davvero bizzarre. Il principale limite del lavoro sta nello strumento scelto per misurare la ricchezza: da un lato la lista dei miliardari della rivista Forbes, dall’altro il Global Wealth Report di Credit Suisse. Entrambi guardano alla “ricchezza netta”, cioè alla differenza tra attività (case, liquidità, azioni e obbligazioni, eccetera) e passività (mutui e altri debiti). E’ un indicatore importante sotto molti profili, ma non necessariamente è una buona misura del patrimonio dei singoli individui. I debiti finanziari, in particolare, non andrebbero confrontati col capitale accumulato, ma col valore attuale netto dei redditi futuri (con cui il debito stesso verrà ripagato). Operazione, ovviamente, impossibile. Ignorare questo aspetto, però, comporta degli autentici paradossi, come aveva già rilevato l’anno scorso il Foglio e come probabilmente farà il prossimo anno se Oxfam insisterà con questa metodologia di analisi.

Qualche esempio: secondo i dati di Credit Suisse ripresi da Oxfam, il numero di adulti con una ricchezza netta inferiore a 10 mila dollari negli Stati Uniti (85 milioni) sarebbe appena più basso di Russia e Brasile (entrambi attorno ai 102 milioni), dove il reddito pro capite è meno della metà. La percentuale di adulti con patrimonio negativo (cioè indebitati) in nord America e in Europa (rispettivamente 9 e 10 per cento) è uguale a quella africana e nettamente superiore a quella cinese (6 per cento). Gli europei che, pur avendo una ricchezza netta positiva, appartengono al quintile più povero (7 per cento) sono gli stessi dell’America Latina e surclassano i cinesi (1 per cento). Gli adulti europei appartenenti al quintile più basso della popolazione mondiale (101 milioni) superano sia i cinesi (72,4 milioni) sia i latinoamericani (69,9 milioni). Secondo questa metrica, il paese coi poveri più poveri (perché hanno una ricchezza netta pericolosamente sbilanciata in campo negativo) è tenetevi forte la Danimarca, dove il 10 per cento più ricco della popolazione avrebbe in mano addirittura il 73,7 per cento della ricchezza netta, contro il 56,6 per cento della Gran Bretagna.

La ragione per cui, in questa peculiare classifica, la neoliberista Londra batte la welfarista Copenaghen sul terreno dell’equità è la stessa per la quale nel 2016 i “super paperoni” che detengono la stessa ricchezza netta della metà più povera della popolazione mondiale sono solo 8, contro i 62 del 2015. Come spiega Credit Suisse, semplicemente, molti, anche nel mondo in via di sviluppo, stanno iniziando a contrarre debiti. Il fatto che individui relativamente poveri facciano un mutuo per comprare casa o avviare un’attività, però, non è un indice di impoverimento, ma un segno di fiducia nel futuro e nella propria stessa capacità di ripagare il dovuto.

Simmetricamente, Oxfam passa disinvoltamente a seconda dei casi e addirittura a seconda dei Paesi dalla povertà alla diseguaglianza. Povertà e diseguaglianze sono entrambe questioni serie, ma concettualmente molto diverse: una nazione in cui nessuno possiede nulla è povera ma non diseguale; una in cui 1’1 per cento della popolazione è miliardario, e il restante 99 per cento “solo” milionario, è diseguale ma non povera. Ovviamente, nel mondo reale, le due cose si incrociano, ma vanno tenute ben distinte, anche perché non necessariamente le politiche adeguate per curare l’una sono anche adatte per affrontare l’altra.

Nell’ansia di lanciare numeri sconvolgenti (otto individui contro 3,75 miliardi), rimangono in ombra gli enormi progressi compiuti nell’epoca della globalizzazione. Tra il 1990 e il 2010, la quota di persone in condizioni di povertà estrema, a livello globale, è crollata dal 43 al 21 per cento. Anche la diseguaglianza si è significativamente ridotta: uno studio di Tomas Hellebrandt e Paolo Mauro ha mostrato che, tra il 2003 e il 2013, l’indice di Gini a livello globale è calato sistematicamente, e continuerà a farlo. La stessa distribuzione dei redditi a livello globale messa a disposizione assieme a moltissimi altri dati da Max Roser sul suo sito OurWorldinData.org evidenzia una progressiva crescita del ceto medio, come si può constatare dal grafico in pagina.

La diseguaglianza non si crea a tavolino
La diseguaglianza è invece spesso cresciuta a livello nazionale (Italia inclusa) e questo interroga sia il nostro modello di sviluppo sia l’efficacia delle nostre politiche. Ma non autorizza a chiudere gli occhi di fronte a un benessere maggiore e più diffuso che mai nella storia dell’umanità. La selettività di Oxfam è funzionale, più che a una descrizione o comprensione dei fenomeni, a una narrazione nella quale tutto cambia (in peggio) tranne il capro espiatorio: il neoliberismo. Si legge nel rapporto: “Un’economia umana combatte il modo in cui la globalizzazione è stata usata per consolidare i principi neoliberisti che mettono i paesi l’uno contro l’altro nella corsa al ribasso su fisco e salari”. Come se l’economia globale fosse una gigantesca quanto cinica partita a Risiko, e come se il mondo non fosse enormemente più complesso della dickensiana favola di Natale.

Da Il Foglio, 17 gennaio 2017

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