18 Ottobre 2019
Il Foglio
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Da giorni sui social circola un poster con Morpheus, il personaggio di “Matrix”, che porge due pillole: una indicante Padova e l’altra, invece, che fa riferimento a Roma. È una trovata del neonato “Partito dei veneti” per sottolineare come sabato alle ore 15 si potrà andare alla loro prima convention, al Palageox di Padova, oppure confluire nella Capitale, dove Matteo Salvini ha convocato i leghisti in nome di quello che ha chiamato “l’orgoglio italiano”.
I veneti che scenderanno a Roma saranno molti di più di quelli, pur numerosi, che si ritroveranno per capire cosa sta succedendo nella galassia indipendentista, ora riunita da questa aggregazione che è già in campagna elettorale in vista delle elezioni regionali. Certo la contemporaneità dei due incontri esalta numerose contraddizioni, dato che non tutti i leghisti hanno digerito l’abbandono dei loro temi tradizionali e la costruzione di un nuovo partito sovranista.
Qualche leghista scontento lo si trova in tutto il Nord, ma il cuore del malessere è in Veneto. La Liga è più antica della stessa creatura di Umberto Bossi e nelle province venete il sentimento indipendentista non è mai stato completamente egemonizzato dal leghismo. Ora che con Salvini la questione dell’autogoverno è stata abbandonata, quanti vogliono costruire pure in Veneto una “prospettiva catalana” ritengono di avere buone possibilità di successo.
Grazie alla “mediazione” di Luca Zaia, finora Salvini è riuscito a far giocare alla Lega due ruoli in commedia: localista a Venezia e nazionalista a Roma e nel Mezzogiorno. La contemporaneità degli appuntamenti e, più in generale, il venire alla luce di questioni cruciali (a partire dal tiepido sostegno che Salvini ha dato alle richieste autonomiste) stanno costringendo anche in Veneto a prendere atto che la Lega sarà sempre più quella del tricolore sventolato a Roma e sempre meno quella del leone di San Marco. Per giunta, gli indipendentisti hanno scelto una strategia moderata: parlando più di autogoverno che d’indipendenza, con la volontà di pescare in quella maggioranza degli aventi diritto al voto che due anni fa si recò ai seggi per chiedere l’autonomia differenziata.
I rapporti tra Salvini e gli indipendentisti veneti, dunque, saranno sempre più tesi. E in effetti già nei giorni scorsi le condanne inflitte ai “presos politics” catalani hanno suscitato varie polemiche in Veneto, dato che in Consiglio regionale i rappresentanti leghisti si sono schierati con l’opposizione catalana in galera, ma sono stati subito accusati di ipocrisia: questo perché la Lega è alleata dell’estrema destra nazionalista, la “Vox” di Santiago Abascal, che avversa ogni ipotesi scozzese di consultazione sull’autogoverno e al processo sedeva sul banco dell’accusa. Salvini è consapevole di queste difficoltà, ma tira dritto. Secondo un politologo, Paolo Feltrin, esisterebbe addirittura uno studio riservato secondo cui l’autonomia in Veneto avrebbe comportato, al Sud, una perdita di voti per la Lega tra i 4 e i 5 milioni. Anche se la stima pare eccessiva, la sostanza rimane: per Salvini è ragionevole mettere a rischio una limitata quota dei suffragi veneti se ciò gli permette di continuare a crescere nel Meridione. Specie ora che la Lega sta reiventando identità e principi di fondo. Come “il Foglio” ha mostrato, Salvini ha buttato a mare la retorica antieuro, consapevole che una parte rilevante dell’elettorato teme l’Italexit e che i partner europei non vogliono una Lega “no euro”. Meglio concentrarsi, quindi, sull’immigrazione e limitarsi a parlare, quando si è a Bruxelles, della necessità di riformare le istituzioni: come, in sostanza, dicono un po’ tutti.
Lo spazio liberato dalla balena bianca post-democristiana, Forza Italia, è troppo grande perché Salvini resti fedele alle radici autonomiste o alle fantasie di Bagnai. Sono i calcoli di opportunità dettati dalla Realpolitik a delineare la nuova strategia. I leghisti di un tempo che sabato andranno a Padova hanno evidentemente già compreso il messaggio.
Da Il Foglio, 18 ottobre 2019