29 Luglio 2022
Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Politiche pubbliche
Ai tempi del Covid erano «ristori». Oggi sono diventati «aiuti». Una volta li chiamavamo «sussidi». Alle prime battute di questa campagna elettorale siamo tutti preoccupati dell’imminente discontinuità. Da un governo sostenuto da una maggioranza ampia a uno inevitabilmente di parte, da una figura internazionalmente apprezzata come Mario Draghi a un premier che, chiunque sarà, ci apparirà perlomeno dagli orizzonti molto più nazionali.
Forse sarebbe il caso di preoccuparsi anche di ciò che definisce la continuità politica degli ultimi anni: l’adesione a un’idea della politica tutta incentrata, appunto, sul ristoro, sull’aiuto, sul sussidio.
La pandemia ha obbligato a chiudere una serie di attività, che sono state «ristorate». In Italia i sussidi si sono innestati su interventi di diverso tipo, a cominciare dal Reddito di cittadinanza, che a sua volta si sommava ad altre misure di carattere assistenziale.
Poi sono arrivati il rincaro dei prezzi energetici e l’inflazione. In un anno, questi hanno portato con sé una decina di provvedimenti di sconti, anticipi, aiuti vari. Pochi giorni fa il governo ha annunciato entrate maggiori del previsto per 14,3 miliardi di euro. Anziché fare meno disavanzo, finanziando i programmi già in essere con le tasse dei contribuenti di oggi invece che con le tasse dei contribuenti di domani, quei 14 miliardi sono subito diventati altri «aiuti».
I sussidi cronicizzano i problemi. Ristoro chiama ristoro, aiuto chiama aiuto. A un certo punto, nel suo «Fratelli d’Italia» (per i più giovani: non si tratta di un manifesto elettorale), Alberto Arbasino sospira: «E tutti lì ad aspettare che vengano elargite provvidenze, per il solo fatto che loro se le stanno aspettando». La ragione per aspettarsi un nuovo aiuto è semplicemente il fatto che si sia beneficiato di un aiuto precedente. È la natura della politica: un sussidio, un beneficio, finisce a esseri umani in carne e ossa che non se ne separeranno facilmente e che a un certo punto cominceranno a considerarlo un «diritto».
La questione non è tanto la volontà di sorreggere «chi è rimasto indietro». È che si afferma una cultura della dipendenza per cui non si cerca di aiutare le persone che l’hanno perso, per esempio, a ritrovare un lavoro. Non pensiamo più che lo Stato debba spianare gli ostacoli che impediscono ai singoli di provare a far da sé. Questa era, almeno sulla carta, la promessa dello Stato sociale: consentire anche ai più umili di andare a scuola per trovare un lavoro migliore di quello dei loro genitori; garantire cure mediche e una pensione perché, sgravati da quelle preoccupazioni, i singoli potessero scegliere di prendersi qualche rischio, diventare un po’ più padroni della propria vita.
Intervistato da Aldo Cazzullo, Giuseppe De Rita ha descritto l’Italia del boom parlando di «conatus essendi»: di una voglia di fare istintiva, ingorda, sregolata, che ha prodotto la ricchezza su cui ancora viviamo. Il Paese è fatto anche di imprese che sgominano la concorrenza sui mercati internazionali. Di imprenditori pieni di progetti. Di lavoratori col culto del lavoro ben fatto.
La voglia di fare è qualcosa che le persone hanno indipendentemente dalle istituzioni politiche. Queste ultime però possono lasciarle spazio, oppure strangolarla. L’automatismo per cui a un problema corrisponde un decreto e a un decreto corrisponde un sussidio la mortifica. Chi prova a far da sé è ufficialmente un ingenuo.
Già in queste sue prime battute, la competizione elettorale sembra essere chi è più credibile come «protettore» di specifiche categorie: ovvero, come elargitore di aiuti a loro vantaggio. Persino l’Europa, stavolta, non è più oggetto di scontro. Solo perché è considerata non un ostacolo, semmai una leva per continuare ad elargire provvidenze.
In questo, non c’è differenza fra destra e sinistra: l’una e l’altra considerano la spesa pubblica un grande sedativo e le emergenze degli ultimi due anni l’occasione ideale per farcelo prescrivere. Ciò però non ha solo conseguenze macroeconomiche, scolpite nel livello del nostro debito. Cambia anche aspettative e comportamenti delle persone, stempera quella voglia di fare che, per anarchica e caotica che sia, è ciò che ci ha sempre tenuto a galla anche nelle occasioni più difficili.
Dove saremmo, oggi, se avessimo costantemente frustrato la voglia di fare dei nostri nonni e dei nostri padri?
Il vero problema dell’Italia del dopo elezioni non è questione di volti e sigle. Ma delle visioni del mondo che ci stanno dietro.
Come si fa a essere «sovranisti», se poi abbiamo sempre il cappello in mano? Che senso ha predicare la diversità, se l’unico orizzonte diventa dipendere dalla borsa pubblica: che spazio resta, per provare a essere più autenticamente se stessi? Un Paese non è forte e autorevole a causa di chi fa il presidente del Consiglio. È forte e autorevole se cresce, se sa produrre ricchezza, se ha una società viva, accesa dalla voglia di immaginare il proprio futuro. Destra e sinistra usano toni diversi, ma l’impressione è che l’una e l’altra vogliano uno Stato elemosiniere. In cerca di facili consensi.
dal Corriere della Sera, 29 luglio 2022