23 Novembre 2022
Il Secolo XIX
Carlo Stagnaro
Direttore Ricerche e Studi
Argomenti / Politiche pubbliche
La prima legge di bilancio firmata da Giorgia Meloni va valutata, prima ancora che per quello che c’è, per quello che non c’è: è un provvedimento senza svolazzi, senza tinte forti, senza bandieroni. In un periodo della storia italiana in cui anche l’ultimo dei decreti viene battezzato con un nomignolo a effetto, l’atto più importante della politica economica del nuovo governo è difficile da titolare. Bisogna andare alle parole usate quasi ossessivamente dalla premier in conferenza stampa: prudenza, realismo e sostenibilità delle finanze pubbliche. Beninteso: ciò non significa che la manovra non abbia una forma e non comunichi un messaggio.
Ma il piatto forte è l’impegno a non scassare i conti pubblici. Come dire: le lezioni del Conte gialloverde e della meteora britannica di Liz Truss, entrambi travolti dallo spread e dai mercati, non sono state invano. All’interno quindi di un perimetro che comunque è moderatamente espansivo – con un deficit al 4,5 per cento – ogni impegno di spesa deve trovare una copertura. Non ci sono bandieroni, dicevamo: ci sono, però, numerose bandierine. La stessa Meloni ha indicato due obiettivi di fondo: la crescita economica e la giustizia sociale («cioè l’attenzione alle famiglie e alle categorie più fragili» oltre che «il ceto medio»).
Con flat tax e Quota 103 non si stimola l’economia
Nel disegno meloniano, le misure per la crescita sono essenzialmente delegate a una serie di agevolazioni che incidono sull’imposta sul reddito. In particolare, la premier ha parlato di “tre flat tax”. Sono defiscalizzazioni mirate ad altrettanti gruppi sociali.
In primo luogo, l’incremento da 65 a 85 mila euro di fatturato della soglia per il forfettario per gli autonomi. Secondariamente, l’applicazione di un’aliquota del 15% sul maggiore utile conseguito nel triennio precedente fino a un massimo di 40 mila euro. Infine, la riduzione dal 10 al 5 percento dell’aliquota sui premi di produttività fino a 3 mila euro per i dipendenti. Nessuna di queste novità avrà probabilmente un particolare effetto sulla crescita. Si tratta di un tentativo di lasciare qualche soldo in più in tasca ai contribuenti. L’intenzione è lodevole, vista la congiuntura che stiamo attraversando; l’attuazione è invece discutibile. Infatti, il sistema tributario ne esce ancor più frammentato e puntellato da eccezioni, anziché ricondotto a unità e semplicità come vorrebbe, in teoria, il principio della flat tax (cioè la tassa unica e piatta).
Il Governo tiene anche fede all’impegno a rivedere il reddito di cittadinanza, sebbene con estrema cautela. Il Rdc ha due finalità: contrasto della povertà e sostegno alla ricerca di un’occupazione. Questa seconda gamba, affidata ai navigator, si è rivelata fin da subito fallimentare. E ciò ha portato a trattare come se fossero eguali situazioni molto diverse, cioè quelle di individui momentaneamente senza lavoro (ma occupabili) e quelle di chi, invece, non ne ha la possibilità. L’idea sembra essere quella di mantenere il Rdc per questi ultimi. Per gli occupabili, non solo scenderà la durata del beneficio (nel 2023 al massimo otto mesi), ma soprattutto sarà subordinato alla frequenza di corsi di formazione e all’eventuale accettazione di offerte di lavoro. Un sussidio de facto incondizionato diventa condizionale: “C’è gente che prende il sussidio da tre anni, lo Stato deve aiutare queste persone trovando un posto di lavoro”, ha detto Meloni. Questa riforma può fornire un contributo alla crescita nel senso che riduce (o elimina) il disincentivo implicito al lavoro che il Rdc comportava.
Sfortunatamente la stessa logica non si applica alla previdenza. Anzi, qui lo sforzo continua a essere quello di anticipare il momento del pensionamento. Intendiamoci: quota 103 (62 anni di età e 43 di contributi) rappresenta un piccolo passo verso il ritorno al sentiero tracciato dalla riforma Fornero, dopo la costosissima quota 100 e la più moderata quota 102. Ma l’Italia rimane il Paese europeo con la più alta spesa pensionistica (il 16 per cento del Pil contro una media Ue di tre punti inferiore). L’età effettiva del pensionamento è invece di 61-62 anni, contro una media Ue tra 63 e 64. Insomma, se il problema è quello di stimolare l’attività economica occorre sforzarsi di aumentare la partecipazione al mercato del lavoro – da parte di giovani e donne in primis – non quello di accompagnare alla porta chi potrebbe ancora contribuire, scaricandone i costi sulla platea dei lavoratori.
Da cuneo fiscale e bollette, mano tesa a chi non ce la fa
La via del governo Meloni verso la giustizia sociale ha la forma di una maggiore focalizzazione degli aiuti. Il principale strumento è la riduzione del cuneo fiscale: al taglio del 2% per i redditi fino a 35 mila euro (confermato) si aggiunge un ulteriore punto per chi non supera i 20 mila euro. Viene anche incrementato l’assegno unico, del 50% per il primo anno di vita del bambino e per tre anni per le famiglie numerose. Infine, si applicherà l’aliquota Iva ridotta ai prodotti per la prima infanzia e i dispositivi igienici femminili non compostabili.
Ma è soprattutto sull’energia (a cui vanno 21 miliardi su 35) che si vede un’impronta netta. Da un lato vengono mantenute le agevolazioni per le famiglie a basso reddito e viene alzata la soglia per accedere ai bonus sociali (da 12 a 15 mila Isee). Dall’altro, la copertura viene in parte dalla riduzione dello sconto sulle accise su benzina e gasolio, che passa da 30,5 centesimi al litro (Iva inclusa) a circa 18. Non è una buona notizia per milioni di automobilisti, ma è necessario e razionale. D’altronde, a godere dello sconto sono in gran parte a favore degli individui ad alto reddito, come documentato dall’Ufficio parlamentare di bilancio.
Per lo stesso motivo, stupisce che sia stato prorogato tal quale l’intervento sulle bollette della luce, che va a vantaggio indiscriminatamente di prime e seconde case. Per quanto riguarda queste ultime (oltre 5 milioni), lo sconto in quota fissa ammonta a circa 100 euro pro capite: una somma che fa ben poca differenza per chi ne beneficia, ma che impone all’erario un costo di oltre mezzo miliardo. Sarebbe opportuno che, durante l’iter parlamentare, questa irragionevolezza fosse sistemata.
Simmetricamente, il governo ha scelto di rafforzare gli aiuti per le imprese, con crediti di imposta fino al 45% per le energivore e al 35% per quelle non energivore. Non sempre questi trasferimenti sortiscono i risultati sperati, perché possono fruirne anche coloro che non hanno una spesa energetica particolarmente rilevante o che potrebbero farcela anche senza aiuti. Tuttavia, è importante presidiare la competitività del sistema produttivo, visto che Paesi come Francia e Germania hanno introdotto interventi assai più muscolari.
Nel complesso, il pacchetto presentato ieri ha una intonazione redistributiva, finalizzata a limitare i benefici per chi può cavarsela da solo per destinare maggiori risorse a chi invece non ce la fa. Si tratta, tuttavia, di un equilibrio precario che si regge da un lato su misure per definizione transitorie e dall’altro sull’impegno a dare seguito a riforme annunciate ma complesse. La manovra ha, infine, un merito: non è concepita come una sparata di fuochi d’artificio per impressionare l’elettorato, ma come una tappa in un percorso più lungo. Nel bene e nel male, questo riconduce la politica di bilancio alla sua dimensione fisiologica di amministrazione dello Stato e attuazione della linea di politica economica dell’esecutivo, anziché strumento di elargizione elettorale o pseudo elettorale e di acquisizione del consenso.
da Il Secolo XIX, 23 novembre 2022