Nei primi sei mesi dell’anno la quota di mercato del nostro cinema ha fatto registrare un misero 18%.
Senza Checco Zalone nelle sale, i numeri sono questi. Tanti film di interesse culturale realizzati col sostegno pubblico (Ministero, Fondi regionali, Rai Cinema, ecc.) che però non hanno interessato le persone.
Al governo non resta quindi che ‘costringere’ gli italiani a ‘guardare nazionale’ in tv, più di quanto non fosse già. Il Consiglio dei Ministri ha approvato ieri, con decreto legislativo, l’aumento delle quote di tempo settimanale da riservare nella primetime televisiva alla produzione italiana: il 6% per i canali privati, il doppio per la Rai, oltre all’aumento degli obblighi di investimento delle emittenti televisive a favore delle opere europee e italiane.
Si tratta di imposizioni che limitano l’autonomia editoriale di imprese private e che hanno ricadute nella loro determinazione dei palinsesti, nei bilanci e nella direzione, come se fossero tutte aziende pubbliche che devono rispondere alle politiche editoriali del governo.
Ma se si guarda la decisione dalla prospettiva degli spettatori, la novità è ancora più insensata.
Non è facendo affluire ulteriori risorse sia dal pubblico che, in maniera coercitiva, dal privato, e obbligando le televisioni a programmare opere nazionali, anche in prima serata, che si possa fare innamorare gli spettatori del cinema italiano.
Dargli una seconda chance, dopo quella dei contributi pubblici con cui la maggior parte delle produzioni sono realizzate, potrebbe solo voler dire continuare a farlo vivacchiare di modesti risultati e successi, protetto com’è dall’aiuto di Stato.
Se avessimo solo poche reti televisive per guardare un film, come era fino a non molti anni fa, dovremmo preoccuparci che sia lo Stato a dirci cosa dobbiamo vedere.
Esiste ancora per fortuna il telecomando e, chissà, forse il prossimo tentativo sarà proprio quello di requisirli tutti, casa per casa.
3 ottobre 2017