Paradossi rischiosi, una crescita fatta coi sussidi

Sostenere la transizione verde non è compatibile con la difesa delle patrie imprese

25 Settembre 2023

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Diritto e Regolamentazione Politiche pubbliche

La nuova ortodossia economica gira attorno a un principio semplice: la crescita economica si fa coi sussidi. La Bidenomics ha fatto scuola. Persino la competizione fra blocchi ci viene presentata come legata allo spazio fiscale che Usa, Ue e Cina hanno per sostenere artificialmente le loro imprese. Chi più spende, meglio starà.

Non c’è spesa che non si possa giustificare con nobili motivi. Il problema è che, come ammoniva Isaiah Berlin, «non tutte le cose sono compatibili, men che meno tutti gli ideali dell’umanità». Per esempio: ci viene detto che dobbiamo sussidiare la transizione ecologica, perché da solo il mercato non riuscirebbe a ridurre con l’auspicabile velocità il ricorso a tecnologie inquinanti e fonti fossili. Ci spiegano anche, però, che dobbiamo sostenere le produzioni nazionali (o, nel nostro caso, europee), perché col comprare tecnologie avanzate da altri verrebbero minacce terribili per la sicurezza nazionale.

Un interlocutore malato di scetticismo farebbe notare che finché consideravamo il problema di secondaria importanza, e acquistavamo componenti da chi era più bravo a produrne, i Paesi coinvolti in questi scambi si consideravano destinati a vivere in pace. Da quando abbiamo cominciato ad annusare ovunque problemi per la sicurezza nazionale, sono tornati gli incubi di guerra. Ma lo scetticismo, per l’appunto, è una malattia e nell’era della nuova economia non è ammessa. L’occidente ha dunque scelto di sussidiare produzioni nazionali e transizione energetica. 

Negli Usa incominciò l’amministrazione Obama. Che è successo? Abbiamo sostenuto e sosteniamo (in Usa come in Europa) molti progetti di campi solari. Ottima cosa, ma per realizzarli servono pannelli solari. I cinesi imparano rapidamente a produrre pannelli solari economici su larga scala. I prezzi globali scendono dell’80% tra il 2008 e il 2013. Se l’obiettivo è la transizione ecologica, dovremmo stappare champagne: farla risparmiando l’80%, direbbe Catalano, è meglio che farla a prezzo pieno. Se non fosse che l’industria solare americana dichiara di non essere in grado di competere a quei prezzi. La colpa, a torto o a ragione, viene ricondotta ai sussidi di cui i cinesi godrebbero a casa loro. Se gli americani seguissero solo la bussola dell’ecologia, beneficerebbero volentieri della generosità del contribuente cinese. I soldi risparmiati andrebbero a finanziare altre produzioni. Una volta eravamo convinti che la crescita economica funzionasse così: più diventiamo efficienti e più si liberano risorse per fare altre cose.

Ma quello era il mondo di ieri. Per crescere coi sussidi e tutelare i «loro» produttori (quelli che realizzano pannelli, non quelli che completano i parchi fotovoltaici), gli Usa mettono dei dazi sui prodotti cinesi. Che fanno le aziende cinesi? Spostano l’assemblaggio finale in Malesia, Vietnam, Thailandia e Cambogia. Gli ingenti stanziamenti dell’Inflation Reduction Act drogano la domanda di sussidi e sconti fiscali: quindi servono sempre più pannelli. Le aziende, sotto sotto, benedicono l’ingegnoso stratagemma cinese. Ma al Dipartimento del Commercio non la si fa. Scatta la sanzione: quei pannelli importati saranno sottoposti a dazi talmente elevati che, scrive il Wall Street Journal, quasi quasi varrà la pena comprarli in Cina. In Unione europea abbiamo meno «spazio fiscale» degli Stati Uniti e siamo arrivati, questa volta almeno, più tardi ad abbracciare i principi della nuova economia. Avremmo potuto, dunque, essere più avveduti e prudenti. Avremmo potuto.

Il Financial Times riporta che Solarpower Europe, associazione delle industrie del solare, è andata innanzi alla Commissione col cappello in mano. La solita concorrenza cinese ha ridotto in media di un quarto il prezzo dei moduli fotovoltaici, dall’inizio dell’anno. Non festeggiamo? Se vogliamo che nel 2030 il 45% della generazione elettrica passi dal solare, è un’ottima notizia. Invece no. Siccome alcuni produttori europei non reggono questi prezzi, e sono costretti a uscire dal mercato, i lobbisti del solare ci esortano a nazionalizzare («europeizzare?») le loro aziende sull’orlo della bancarotta. Contemporaneamente, vorrebbero aumentare i dazi sulle componenti di provenienza cinese. Di nuovo, sotto accusa ci sono i sussidi distribuiti dal governo di Xi: «non possiamo accettare altrove quello che non accettiamo a casa nostra», ha detto Ursula von der Leyen. Guai a pagare meno qualcosa che potrebbe costarci di più.

Così, l’unione europea si avvia a costringere il consumatore a comprare pannelli a un prezzo più caro, inasprito coi dazi, e assieme a costringere il contribuente a diventare azionista di imprese che sappiamo essere meno efficienti di quelle cinesi. La Bidenomics in contesti diversi porta a esiti simili: anche in Europa siamo in questa situazione perché la domanda per i componenti dell’energia solare è aumentata da 6 miliardi nel 2016 a più di 25 miliardi l’anno scorso. In parole povere, i cinesi beneficeranno forse di sussidi in casa loro, ma la domanda è trainata dai sussidi occidentali.

Amici fautori della nuova economia, aspiranti pianificatori europei, cantori del debito buono, una prece. Ricordate una regola del mondo di ieri: un obiettivo, uno strumento. Se volete sussidiare l’industria patria, sussidiatela. Se volete sostenere la transizione, fatelo. Confondere l’una e l’altra cosa ci garantisce solo che le spese saranno sempre più fuori controllo. Sarà pure debito buono, ma di certo è debito nostro.

da L’Economia del Corriere della Sera, 25 settembre 2023

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