«Il diavolo non è così brutto come lo si dipinge. Il guaio è che non riusciamo a capirlo, vorremmo fermarlo e sintetizzarlo in un grafico, invece lui sfugge, e ci lascia terrorizzati». Il diavolo è la globalizzazione, che ha distrutto tutte le sinistre occidentali, le quali hanno provato a cavalcarla ma sono state disarcionate appena messo il piede nella staffa. E ha schiacciato le destre su posizioni conservative ma poco liberiste, perché ne ha terrorizzato e impoverito gli elettori. «Ma la critica alla globalizzazione è ingenerosa, la mondializzazione degli scambi è un fatto positivo, ha fatto uscire milioni di persone dalla povertà e migliorato la vita di tutti», abbozza Alberto Mingardi, da vent’anni la più giovane e brillante mente libertaria d’Italia, ex collaboratore di Libero finito al Financial Times, al Washington Post e al Wall Street Journal, americano con tre «k», fondatore dell’Istituto Bruno Leoni, centro studi che promuove idee liberali, saggista, politologo, liberista con la passione dei monopoli.
Dici così perché tu lavori per il meccanismo infernale…
«Nego. Tra un paio di mesi darò alle stampe un libro, Neoliberismo, Marsilio editore. Sarà un po’ “stonato”. In libreria non c’è un solo libro in cui la parola “neoliberismo” non venga usata come insulto…».
Perché allora difendi il pensiero unico globale?
«La globalizzazione ha prodotto benefici: più ci si specializza e più le cose si fanno velocemente e bene. Vale all’interno di un Paese e anche sul piano internazionale. Ma la globalizzazione ultraliberista è un mito. Ogni cosa viene minuziosamente regolamentata da Stati e organizzazioni internazionali, che spesso fanno da paravento a interessi di parte. Con la scusa della sicurezza e alcune buone cause prese a pretesto, esse sfornano chili di leggi all’interno delle quali lobby e multinazionali trovano il modo di farsi i fatti loro. I trattati internazionali hanno migliaia di pagine: per dire che si può scambiare liberamente beni e servizi basterebbe una riga. Anche per questo l’Europa è avvertita dalle persone come un corpo burocratico lontano e democraticamente poco credibile».
I politici sono complici questo?
«I politici non ci capiscono molto di più degli elettori. Il mondo si è fatto grande e complicato, i governi si occupano di troppe cose, le macchine burocratiche sono elefantiache, anche chi le dirige non sa bene come funzionano, e la gente si sente sempre più in balìa degli eventi. La vittoria di Trump e la Brexit si spiegano così, con la sensazione delle persone di non controllare più ciò che avviene».
Tu che scrivi per i giornali Usa, dimmi perché Trump ha vinto?
«Innanzi tutto perché aveva di fronte il candidato peggiore che i Democratici potessero presentare. Poi perché ha fatto una campagna elettorale intelligente e ben calibrata, andando a prendersi i voti negli Stati in bilico. Infine, perché votarlo rappresentava un urlo liberatorio nei confronti del politically correct, che nel mondo anglosassone è diventato una prigione del linguaggio e sta creando una società sessuofoba, dove la pacca sul sedere è equiparata allo stupro. Ha vinto anche per le sue pessime maniere. L’esasperazione del politicamente corretto ha prodotto una spinta nella direzione opposta».
Ne spara una al giorno, l’ultima è quella che gli immigrati arrivano da Paesi di m… Non è troppo?
«Quella sui Paesi latrina è un po’ dura da digerire. Ma in generale le sue sparate piacciono agli elettori, che non ne potevano più del politicamente corretto. Se davvero gli candideranno contro Oprah Winfrey, la star nera della tv, i democratici dimostreranno di non aver capito nulla. Anziché parlare con chi lo ha votato, continuano a considerarli degli appestati».
Come presidente funziona o no?
«Le profezie di sventura non si sono avverate. The Donald ha detto un sacco di rodomontate ma non ha fatto molto, e dunque nemmeno grandi casini. Ha fatto un’eccellente nomina alla Corte Suprema e ha messo persone giuste nelle agenzie di regolamentazione, col compito di tagliare la burocrazia. La sua riforma fiscale avrà effetti positivi».
Cosa ti convince in particolare?
«Ha abbassato le aliquote a persone e imprese e ha alzato la quota esente. I costi stimati, anno per anno, sono attorno all’1% del Pil: fatte le dovute proporzioni, non siamo lontani dall’impatto dei famosi 80 euro di Renzi. A differenza del provvedimento italiano, che non è andato a incidere sul disegno del sistema fiscale, quello di Trump ha ridisegnato l’intero meccanismo tributario Usa»
Trump è un liberista?
«No. Penso non creda in nulla. Fra i politici, non è poi così raro».
E Berlusconi è un liberista?
«Quando parla o quando governa? È da 25 anni che continua a dire che bisogna abbassare le tasse e ha sempre vinto su questo e sulla promessa di semplificare la vita agli italiani, i quali vivono in un Paese in cui è complicato perfino costruire un abbaino. Detto ciò, quando è stato al governo, di cose liberiste ne ha fatte pochine».
Perché non ha mai fatto la rivoluzione liberale?
«Siamo un Paese strano. Abbiamo imprenditori straordinari e ci lamentiamo della burocrazia, ma poi pensiamo che tutto quel che è pubblico è buono e tutto quel che è privato è cattivo. Siamo schizofrenici. Riteniamo i nostri politici criminali o fessi, poi vogliamo far fare loro più cose…».
Stai eludendo la domanda?
«Berlusconi è il maestro delle campagne elettorali, un po’ meno dell’attività di governo. Adora occuparsi delle relazioni internazionali ma quando si tratta di sudare sulle carte e fare politica economica, lascia fare ad altri. Col successo che ha avuto e la storia che ha, si capisce che l’ingegneria di governo lo annoia. Però chi governa deve scrivere, leggere e correggere provvedimenti di legge, non ha alternative».
Alla sesta campagna elettorale è ancora il protagonista, in ripresa anche se solo un anno fa lo davano per morto.
«Penso che sia il più incredibile “animale da campagna elettorale” della storia della democrazia. È una bussola vivente capace di sintonizzarsi sull’elettore e ha un pallottoliere incorporato che gli consente di pensare costantemente ai diversi gruppi di sostenitori e dire a ciascuno la cosa giusta per renderlo felice».
Al solito le promesse finiranno nell’armadio delle scope?
«Come premier ha fatto fatica anche perché le truppe a sua disposizione erano quel che erano. Siccome la sinistra fino a ieri ha avuto l’egemonia culturale, era difficile per il centrodestra trovare quel supporto, tecnico e culturale, senza cui governare non si può. Soprattutto quando Berlusconi era dipinto come l’uomo nero. A questo giro può essere diverso: lui non può fare il premier e in molti, anche tra i nemici, si sono accorti che non c’è granché di meglio sulla piazza».
Come mai va così di moda la riabilitazione del Cavaliere?
«Il panorama politico si è impoverito. Il confronto con i rivali fa sì che Silvio risulti anche all’estero come la sola ancora di salvezza. Ora poi si atteggia pure a maestro di prudenza…».
C’è da fidarsi?
«Delle promesse elettorali, mai. I politici raccontano balle per lavoro. Sul moderatismo di Silvio però io ci scommetterei. Credo che il vituperato conflitto di interessi di Berlusconi sia stato un bene per il nostro Paese, perché lo ha tenuto con i piedi per terra. Quando esagerava con le promesse pur di piacere, i suoi molteplici interessi lo riportavano sulla terra. Avendo “la sua roba” in Italia non gli conviene mandare il Paese a catafascio».
Le spari grosse anche tu…
«Pensa alla flemma con cui ha passato la campanella di premier a Monti, dopo anni di campagna mediatici selvaggia in cui lo accusavano di essere mezzo pedofilo, irresponsabile e un incapace che stava portando il Paese al fallimento. Probabilmente anche i suoi interessi lo hanno spinto ad accettare di farsi da parte senza fare il matto, pur di evitare il peggio. L’opposto di quanto accaduto a Renzi».
Io ero convinto che fosse un punto di forza per Renzi il fatto di essere unicamente un politico…
«No, perché ti rende più facile fare l’avventuriero. Renzi è pronto a scommettere tutto come se non ci fosse un domani, non pensa mai alle mosse successive. Il risultato è che sul debito, sull’immigrazione, sulla Ue, ha giocato tutte le parti in commedia e creato grande confusione. Avere una scarsa esperienza di vita dietro sé è stato un punto debole di Renzi, gli ha fatto perdere velocemente il contatto con la realtà una volta arrivato a Palazzo Chigi. La personalizzazione della politica, con una sola persona che deve parlare di tutto, fa il resto, accelerando i tempi di consunzione dei leader».
Sembra che i grillini non riescano più a raccogliere tutta la protesta e a convincere gli astensionisti a recarsi al seggio?
«Aspetterei il 5 marzo. Noi che scriviamo sui giornali e li leggiamo viviamo in una bolla. In Sicilia sono andati benissimo. E quelle erano elezioni in cui contava molto il voto di apparato, che loro non hanno ancora. A destra e sinistra fa gioco dire che sono incapaci ad amministrare; probabilmente è vero, ma a me sembra che invece sappiano fare politica. Hanno incentrato la campagna elettorale su una logica bipolare: loro contro il vecchio; e riescono a sparigliare di continuo».
E Silvio come andrà?
«Non lo so. Dipende se prevarranno quelli stufi, che non ci credono più, dopo averlo mandato a Palazzo Chigi tre volte e mezza. Oppure quelli che preferiranno qualcosa di noto, magari non entusiasmante, al salto nel buio dei Cinquestelle. È fra i grillini che deve riprendere voti, per questo li attacca tutti i giorni. Anche il Pd dovrebbe fare lo stesso, ma non lo fa».
Il centrodestra vincerà?
«Potrebbe. Specie se segue il consiglio che Montanelli diede a Bossi. Parlare e comparire il meno possibile. Gli altri lavoreranno per lui».
Salvini è entrato in crisi?
«Il tema dell’euro si sta sgonfiando. Gli italiani hanno bisogno di uno spauracchio e se la prendono con l’euro. Ma non è tornando alla lira che si può riprendere a crescere. Nei dieci anni precedenti l’euro, la lira aveva perso quasi metà del proprio valore rispetto al dollaro. Senza euro, probabilmente si sarebbe continuato con quel ritmo. Ciò vuol dire che un iPhone ci costerebbe sei milioni di lire invece di mille euro, equivalenti a poco meno di due milioni di lire. La benzina costerebbe di più, così i voli, eccetera. Con la svalutazione, non puoi pensare di abbassare i prezzi che fai al resto del mondo su quel che vendi ma che nello stesso tempo il costo delle cose che importi non aumenti! Poi gli italiani sono grandi risparmiatori, e l’euro tutela i loro denari. Se lo abbandoniamo, che ne sarà dei miei quattrini?, pensa l’elettore; che per di più è in larga parte anziano. Anche l’immigrazione, grazie a Minniti, fa meno paura. Infine, non capisco perché la Lega abbia smesso di cavalcare la questione settentrionale. La battaglia per il Nord è nel dna del partito, e i referendum in Lombardia e Veneto dimostrano che è una questione viva».
Ci vai giù pesante…
«Salvini è un leader abilissimo, ha salvato il suo partito, ma la rimozione della questione settentrionale è un paradosso».
Speri anche tu in Gentiloni?
«No. Lo apprezzo, come la maggioranza degli italiani, perché dà la sensazione di parlare solo dopo aver pensato, senza per questo essere saccente. Ma oggi servono scelte nette. In Italia esiste un’emergenza: è la mancanza di liberismo, dobbiamo smetterla di angosciare chi intraprende. Il nostro dramma è la scarsa crescita, ma se oltre metà del Pil è legato alla spesa pubblica sono guai. I quattrini stanno meglio nelle tasche dei cittadini. Noi dell’Istituto Bruno Leoni abbiamo un piano per una Flat tax al 25%. Si può fare, senza aumentare il debito».
Da Libero, 15 gennaio 2018