Intervista a Nicola Rossi: «Le regole fiscali vanno discusse apertamente e l'occasione potrebbe essere il voto per le Europee»
Professor Nicola Rossi, da economista liberista ma anche europeista convinto ha espresso critiche molto circostanziate sul riformando Patto di stabilità e crescita. Perché?
«Parliamo ovviamente della proposta come è ora sul tavolo. E non di quella che sarà o potrebbe essere»
Esatto…
«Il problema è serio perché si sta provando a fondere due logiche completamente diverse. La prima è quella tutta incentrata sulla discrezionalità della Commissione. Una proposta indeterminata. Priva di un quadro di riferimento chiaro, e dipendente dall’esito del negoziato che ogni Paese avvierebbe con Bruxelles. La reazione della Germania è stata comprensibilmente quella di voler vedere fissati dei paletti di fronte a tanta indeterminatezza. Una logica ben diversa dalla prima. Il risultato è un pasticcio che aprirà inevitabilmente la strada ad una nuova stagione di deroghe e trattamenti di favore per qualcuno piuttosto che per l’altro. Un’Europa fondata sui rapporti di forza e sui negoziati interni. Non fa bene a lei prima ancora che all’Italia».
Giunti a questo punto, quale sarebbe a suo avviso la soluzione migliore?
«Io credo che la cosa più sensata di tutte sia quella di andare a dopo le elezioni europee e spiego perché. Il tema delle regole fiscali diventerebbe un argomento di campagna elettorale e io credo che questo sia un bene. È giusto che gli elettori europei si confrontino. Proprio perché penso che l’Europa non possa rimanere in mezzo al guado troppo a lungo, credo che su materie di questa importanza gli elettori debbano esprimersi. Il mio personale punto di vista è che le regole fiscali siano uno strumento di difesa del cittadino nei confronti degli errori e degli eccessi dei governi. C’è chi invece pensa che la crescita si faccia col bilancio pubblico e che delle regole sia bene fare a meno. Se avessero ragione loro, l’Italia sarebbe dovuta crescere a ritmi coreani da qualche decennio a questa parte. Ma il punto è un altro: di questioni così di fondo si dovrebbe discutere apertamente».
“No taxation without representation” direste voi dell’Istituto Bruno Leoni!
«Esattamente!».
Da economista esperto di questioni monetarie, ha degli appunti da muovere all’attuale politica della Banca centrale europea?
«La Bce è uscita troppo tardi da un periodo del tutto innaturale di tassi a zero. Ed ha riconosciuto troppo tardi che l’inflazione era una questione seria e che si stava radicando. Oggi fa bene a mantenere un atteggiamento di prudenza finché il fenomeno inflazionistico non sarà rientrato del tutto. Ma vede, questo è un buon esempio di quanto dicevo prima. Le istituzioni, per quanto serie e rispettabili, commettono errori come tutti gli esseri umani. Possono prendere fischi per fiaschi ancorché animate dalle migliori intenzioni. In linea di principio, le regole sono necessarie a proteggerci da questi errori le cui conseguenze ricadono poi su di noi. Come si è visto anche in questo caso».
Ma in finale tutte le banche centrali attendono di vedere cosa fa prima la Fed e poi si muovono di conseguenza. Esiste un tema di conformismo pure nel serio ambito della politica monetaria?
«Non parlerei di conformismo. I mercati dei capitali sono fortemente interrelati, e un coordinamento a livello globale, è auspicabile. Anche per prevenire fonti di instabilità (di cui sarebbe bene fare a meno)».
I detrattori del Mes, fra cui chi le parla, sollevano un tema. Il Mes riformato utilizzerebbe i nostri soldi per ristrutturare anche le banche tedesche. Il sistema bancario tedesco ha delle criticità oppure il rilievo è propagandistico?
«Penso che il loro sistema bancario abbia più problemi del nostro, che nel corso degli ultimi anni si è ristrutturato ed irrobustito non poco. Per inciso, buona parte del sistema tedesco non è sottoposto alla vigilanza della Bce. Ciò premesso, una cosa dovremmo averla imparata negli ultimi 15 anni. Basta che salti il sistema bancario di un piccolo Paese (figurarsi la Germania!) e le conseguenze sono gravi per tutti gli altri. Consentire che il Mes tuteli gli altri, può indirettamente tutelare anche noi. Ma un’avvertenza è necessaria. Logica dice che, se si fa il Mes, deve anche esserci l’unione bancaria e, quindi, ad esempio, una assicurazione comune sui depositi. Muovo un appunto al governo in tal senso. Se si vuole porre una condizione all’approvazione del Mes si dovrebbe dire: Mes sì ma unione bancaria oggi».
La politica green dell’Ue fatta di regolamenti e direttive come se piovessero la convincono?
«Le sfide che abbiamo davanti in termini di transizione digitale ed ambientale sono, io credo, concrete e non una semplice invenzione. Ciò premesso, come si affrontano meglio? Con tanto intervento pubblico in termini di regolamentazione e bilancio o con normative meno puntuali e chiedendo al settore privato di fare tutto quanto necessario in termini di innovazione tecnologica? Io non ho molti dubbi. E’ questa seconda strada quella da seguire. Se una cosa può fare il pubblico, è quella di favorire che il privato trovi la strada migliore».
Che giudizio dà del primo anno di governo di Giorgia Meloni?
«Abbastanza positivo. Sulla finanza pubblica ha mantenuto un atteggiamento di responsabile prudenza. Si sforza di trovare soluzioni condivise a livello europeo, e mi auguro che, in vista dell’allargamento, voglia lavorare per il superamento del principio dell’unanimità. Sul Mes mi sento di dire che nessuna forza politica può rivendicare coerenza essendo bene o male stata al governo e all’opposizione negli ultimi vent’anni. Trovo molto positivo aver detto basta alla stagione del Superbonus e del reddito di cittadinanza con tutte le sue storture. Che cosa manca? Un po’ di competenze in più non guasterebbero e servirebbe una convinzione profonda che senza le energie dei singoli e del settore privato non c’è Pnrr che tenga per promuovere lo sviluppo del Paese».
A proposito di Pnrr (su cui lei è stato molto critico da sempre), la convince il lavoro di revisione fatto dal ministro Fitto?
«Una cosa di buon senso, visto che grazie a questo lavoro si sono poste le premesse perché tutte le risorse, che si è deciso di confermare, siano spese entro il 2026. Certo, nel 2021 il Pnrr è stato richiesto senza sapere perché. E nel 2022 non si è fatto molto per aggiustare il tiro. Non si poteva quindi non intervenire per rivederne i contenuti. Ma non illudiamoci che questo piano da solo possa far aumentare la nostra capacità di crescita a medio lungo termine».
La locomotiva tedesca non esiste più? Figurativamente bombardata nel conflitto Russia-Ucraina?
«Quel modello è andato in frantumi dentro il conflitto. Ma non sottovaluti che la Germania era nell’opinione comune il malato d’Europa nella seconda metà degli anni Novanta. Nel giro di due-tre anni si introdussero poi le riforme necessarie per una svolta. La Germania spesso sa quando è il momento di cambiare strada e che strada prendere. Vero è che non so se questo governo tedesco abbia la stessa forza e la stessa visione dei governi di quegli anni».
Cosa pensa dei fondi fuori bilancio tedeschi?
«La pronuncia della Corte costituzionale tedesca non mi stupisce e ha una sua razionalità. Governare significa scegliere e non evitare di farlo».
da La Verità, 18 dicembre 2023