Esistono ancora i think tank? Hanno senso oggi i centri di formazione del pensiero e delle policies? La risposta è tra le più complesse immaginabili. Siamo immersi in uno strano tempo nel quale la comunicazione ha ‘divorato’ la politica, marginalizzando le competenze e l’approccio science based, e rendendo quasi inutilizzabili le analisi tecniche a supporto delle decisioni politiche: in questo contesto è facile mettere in discussione l’utilità dei think tank. Immaginando che nel flusso continuo di informazioni e opinioni in cui vero, verosimile e falso si confondono fino a confluire in una realtà limacciosa, indistinta e terribilmente superficiale, ‘pensare il pensiero’ sia semplicemente fuori luogo. E fuori tempo.
Eppure, proprio nell’era del populismo trionfante, questo strumento diventa ancora più prezioso, come hanno dimostrato Ispi, Iai ed Ecfr in un dibattito organizzato a Roma presso la sede della Stampa Estera nell’ambito dell’iniziativa globale ‘Why Facts and Think Tanks Matter’, promossa contemporaneamente in oltre 120 città del mondo dalla University of Pennsylvania. Condivido la loro tesi di fondo perché, se scoppia una carestia che rende inservibili laghi e fiumi, l’acqua che giunge da fonti di approvvigionamento esterne all’ambiente in cui si vive diventa ancora più preziosa, anzi indispensabile. La metafora rende l’idea di ciò che sta accadendo? Nelle democrazie occidentali oggi il principale canale di approvvigionamento delle informazioni da parte dei cittadini è costituito dai social media, mentre si sono impoverite fortemente le tecnostrutture a supporto delle istituzioni. In uno scenario di questo tipo la disponibilità di analisi accurate diventa cruciale per i governi, per il mondo delle imprese e per i cittadini. E solo (pochi) think tank di qualità sono in grado di garantirla.
Se guardiamo a quanto accade a livello globale, i think tank non sembrano aver risentito della crisi economica. Il loro numero è raddoppiato dal 1980, crescendo gradualmente negli ultimi anni in tutte le regioni del mondo: attualmente si contano 1.931 strutture di questa natura in Nord America e 1.770 in Europa. Secondo la classifica Global Think Tank Index dell’università della Pennsylvania, il think tank più influente al mondo è da molti anni la Brookings Institution, con sede a Washington. Questo centro ha un passato glorioso almeno quanto il suo presente, avendo contribuito alla creazione delle Nazioni Unite e al piano Marshall.
Oggi ne fanno parte, tra gli altri, gli ex presidenti della Federal Reserve, Ben Bernanke e Janet Yellen, ed è finanziato (tra gli altri) dalla Bill & Melinda Gates Foundation. Al quarto posto della stessa classifica compare un altro think tank di straordinaria influenza, che potremmo considerare la risposta europea alla Brookings Institution. È il Bruegel, opera a Bruxelles ed è specializzato nelle analisi economiche e nella governance europea. Ha avviato le sue attività nel 2005 sotto la guida di Mario Monti, oggi è presieduto da Jean-Claude Trichet e ha un blog molto condiviso. Ne fanno parte i governi degli Stati membri dell’Unione europea, nonché alcune società e istituzioni autonome.
E in Italia? I think tank sono in media poco influenti e provinciali, hanno una scarsa produzione scientifica, vantano una bassa visibilità media. In sostanza: non creano pensiero politico. Ma in questo panorama deprimente ci sono alcune lodevoli eccezioni, che possiamo individuare proprio grazie alla classifica dell’università della Pennsylvania nella quale riescono a posizionarsi (anche se non nelle prime file) dieci realtà italiane. Tra queste la prima è l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), che si colloca al 46esimo posto della classifica generale, seguito dall’Istituto affari internazionali (Iai) in 48esima posizione: la qualità delle analisi politiche realizzate da entrambi è nota a livello internazionale. Degna di menzione è anche la presenza al 131esimo posto di questa classifica mondiale dei “serbatoi di pensiero” dell’Istituto Bruno Leoni guidato da Alberto Mingardi e Serena Sileoni, che si è dato l’improba missione di diffondere nella cultura politica italiana (storicamente assai deficitaria in merito) “idee per il libero mercato”. A questi esempi potremmo aggiungere, anche se non compare nella graduatoria redatta dalla University of Pennsylvania, il Censis guidato da un ‘faro’ del pensiero contemporaneo come Giuseppe De Rita.
Eccezioni a parte, non esiste nel nostro Paese un vero ‘mercato delle idee’. E i leader nostrani usano affidarsi molto più ai sondaggi che alla ricerca sociale per capire il Paese e i suoi problemi. Del resto già 90 anni fa Piero Gobetti scriveva sulla Rivoluzione liberale che “senza conservatori e senza rivoluzionari, l’Italia è diventata la patria naturale del costume demagogico”. Non ci resta che sperare che, prima o poi, la profezia di Gobetti sia smentita dai fatti.
da Prima Comunicazione, Febbraio 2019