Per aiutare i libri non serve una nuova legge

La nuova frontiera dell'interventismo è dire che serve una legge anche quando le cose non vanno male

22 Marzo 2019

Il Mattino

Serena Sileoni

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Quando qualcosa va storto, siamo abituati a sentirci dire che serve un intervento legislativo per raddrizzarlo. La nuova frontiera dell’interventismo è dire invece che serve una legge anche quando le cose non vanno male.

L’ultimo rapporto sullo stato dell’editoria dell’Associazione italiana editori (anno 2018) conferma l’uscita del settore da un lungo periodo di recessione. Nel 2017 il mercato editoriale è cresciuto del 4,5% rispetto al 2016 (5% al netto del settore usato e istruzione), confermando un trend crescente dal 2015. Le case editrici attive sono aumentate, i titoli su carta sono aumentati, la produzione in tutti i macrogeneri è aumentata, la vendita di diritti è aumentata. Le librerie resistono, con una quota di mercato passata dal 79% del 2007 al 70,8% del 2017, mentre è cresciuta significativamente la vendita on line (dal 3,5% al 21,5%).

Secondo l’Istat, nel quinquennio 2011-2016 non si sono persi lettori: 4 italiani su 10, a partire dall’età dell’alfabetizzazione, continuano a leggere. Non sono molti in rapporto alla popolazione, specie perché per lettori si intende chi ha dichiarato di aver letto almeno un libro l’anno, ma il punto è che non sono meno di prima.

Per i libri, quindi, le cose non vanno male, anzi vanno meglio degli anni precedenti. Eppure, il ministro per i beni e le attività culturali Bonisoli ha pochi giorni fa dichiarato alla fiera milanese dell’editoria indipendente che occorre dotare il Paese di una legge sul libro, persino auspicando che sia approvata all’unanimità.

Diverse proposte di legge, di iniziativa trasversale del PD e della Lega, sono già in discussione in Parlamento per impedire di vendere libri con sconti superiori al 5%. Il pensiero dietro queste iniziative è che praticare gli sconti sia facile per strutture di medie-grandi dimensioni – compresi i grandi rivenditori on line – e difficile per i piccoli librai e editori indipendenti. La concorrenza attraverso gli sconti minaccerebbe quindi la sopravvivenza di questi ultimi e, in definitiva, di quel pluralismo dell’offerta editoriale indispensabile alla circolazione delle idee.

Da sei anni è in vigore una legge – nota come legge Levi, dal nome dell’allora proponente, oggi presidente dell’Associazione Italiana Editori – che, ispirata dallo stesso pensiero, impedisce sconti superiori al 15%. Esiste già quindi una legge sul prezzo dei libri, ma a quanto pare non è abbastanza.

Ammesso che limitare gli sconti sui prezzi di copertina sia il modo di invogliare più persone a leggere di più – cosa di cui si dubita fortemente – l’aspetto curioso è che, secondo il ministro e alcuni rappresentanti di categoria, anche se (anzi, poiché) il settore mostra segni di ripresa rispetto agli anni precedenti, bisogna fare qualcosa. Evidentemente, costoro credono che la ripresa sia dovuta alla legge Levi, e che quindi per avere risultati migliori bisogna intervenire ancora, nella medesima direzione.

Se il settore abbia mostrato segni di ripresa grazie alla legge Levi è impossibile da dimostrare, perché non sapremo mai come, senza di essa, sarebbe andato il mercato. Sappiamo però che, negli ultimi due anni, c’è stata una timida ripresa economica; possiamo ragionevolmente pensare che le persone leggono semplicemente se amano leggere e se sono invogliate a farlo fin da giovani; e possiamo azzardarci anche a pensare che gli sconti, casomai, funzionano da esca più di quanto non funzionino le loro limitazioni.

Se però avesse ragione Bonisoli, allora dovremmo avere il coraggio di andare fino in fondo. Se limitare gli sconti fa bene, e limitarli ancor più di quanto non sia oggi fa meglio, perché non vietarli del tutto? Anzi, perché non imporre un prezzo fisso, stabilito dalla legge, in base a criteri oggettivi come il numero di pagine? In fondo, tra i sostenitori della legge vi è chi, come l’associazione delle Librerie indipendenti di Milano, sostiene che «Il problema non sono gli sconti, ma la difesa di un equo prezzo di copertina. E il prezzo di copertina si fa sommando tutti i costi». L’abbiamo già sentita, questa teoria marxista del prezzo di produzione. Da qualche parte nel mondo si è anche sperimentata. E la storia dice che non è andata molto bene, non solo per l’economia, ma – prima ancora – per il pluralismo e la libertà delle idee e della cultura. Quello stesso pluralismo che i sostenitori dei limiti al prezzo di copertina dicono di avere a cuore.

Da Il Mattino, 22 marzo 2019

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