Per chi suona il business (anche) dopo Sanremo

Intervista a Massimiliano Pani, editore musicale e fondatore di PDU

13 Febbraio 2023

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Economia e Mercato

l digitale, per definizione, de-materializza tutto quello che tocca. Questo ha reso la musica ubiqua, diffusa, ascoltata come non è mai stata ma anche più «leggera». «Una volta i ragazzi si regalavano un disco al primo appuntamento, adesso la musica non si incarna più in un oggetto che ci si può scambiare. E l’industria discografica non se ne è accorta». Massimiliano Pani, arrangiatore, compositore ed editore musicale, con la sua PDU sta facendo quel che fanno gli imprenditori alle prese con una domanda in evoluzione: esperimenti. Mentre il cd scompare dai negozi, ha scelto di realizzare dischi in vinile e nastri magnetici (il supporto più vicino al momento della registrazione) di alta qualità. Il digitale trova una sua collocazione negli Nft e chiavette Usb eleganti e ricercate anche nell’aspetto, dove c’è tanta musica ma un controllo ferreo sulla qualità. L’ambizione è quella di costruire un catalogo di pezzi unici.

Il digitale ha riempito di musica la nostra vita. Probabilmente non ne abbiamo mai ascoltata tanta, ovunque. Si direbbe che anche gli artisti non siano mai stati così popolari. Perché l’industria discografica dovrebbe soffrirne?
«È un tema di filiera. Forse è vero che l’artista affermato non è mai stato così famoso come oggi. Ma fino ad alcuni anni fa c’era un ritorno sull’investimento che consentiva di puntare su chi stava muovendo i primi passi, farlo crescere, resistere al suo fianco anche se il successo non era immediato… Oggi i nuovi cantanti escono dai talent. E spesso ballano una sola stagione. Si è persa la capacità di lavorare sul e con l’artista, perché non c’è modo di valorizzare quel lavoro».

Questo è legato alla perdita della dimensione «fisica» della musica?
«Le modalità di distribuzione condizionano, inevitabilmente, qualsiasi prodotto. La distribuzione influenza le dinamiche del prezzo, cambia le abitudini di ascolto delle persone. Ci sono vantaggi e svantaggi: su Youtube troviamo qualsiasi cosa, ma la qualità della riproduzione è bassa e ci stiamo abituando a standard di quel tipo. Se tutto è gratis, non c’è più di che pagare la creatività e la professionalità».

Il digitale non fa numeri superiori a qualsiasi lp o cd del passato? Non basta a sostenere la creatività?
«Facciamo un esempio. Spotify paga per uno stream 0,0043 euro. Questo vuol dire che un milione di persone che ascoltano una canzone portano a realizzare 4.300 euro lordi: che devono remunerare la Siae, il discografico, l’artista. Quest’ultimo tenderà a superare gli intermediari. È un po’ quello che succede nell’industria editoriale, dove il self-publishing è sempre più diffuso. Ed esattamente come nell’industria editoriale può essere un’ottima soluzione: se sei Vasco Rossi. L’artista di grido, così come lo scrittore celebre, può vivere di eventi e di prodotti digitali che controlla direttamente. Ma il giovane non ha un nome che attragga migliaia di persone ai suoi concerti, non ha un suo studio di registrazione e in realtà non ha ancora sufficiente familiarità con i registri della produzione musicale “per gli altri”, pensata e costruita per incontrare un pubblico, mantenendo nel contempo una “sua” voce».

In altri termini, sta scomparendo la dimensione artigianale della produzione musicale?
«Negli anni Novanta, abbiamo avuto un importante consolidamento dell’industria. Sono emerse case di produzione sempre più grandi, tant’è che il mercato mondiale oggi si riduce a tre, più poche private label come la nostra, e solo in alcuni Paesi, come Italia e Inghilterra».

Si è anche globalizzato il mercato.
«Per carità, è splendido che centinaia di milioni di persone che appena venti o trent’anni fa potevano sentire musica solo se la facevano essi stessi, con quel che avevano a disposizione, oggi abbiamo a disposizione tutta la musica scritta e suonata nella storia del mondo, a portata di clic. Ma in questo processo l’industria discografica ha spesso dimenticato la sua funzione: che non è semplicemente quella di distribuire la musica che c’è già ma di consentire che se ne faccia di nuova».

In che senso?
«Non abbiamo saputo capire e interpretare la rivoluzione del digitale. Le major hanno seguito l’obiettivo di una gratificazione di brevissimo periodo, “estraendo” quel tanto o quel poco di royalty che potevano dal loro catalogo. Ma hanno guardato il dito e non la luna: oggi la diffusione della musica è in capo ad altri attori, che negli ultimi anni hanno usato la loro posizione per pagare poco o nulla quelli che oggi si chiamano i produttori di contenuti. Anche in spregio a norme che pure esistono».

Però Warner ha comprato i diritti di David Bowie per 250 milioni di dollari e Sony quelli di Bob Dylan per 500 milioni…

«Questi sono artisti di dimensione leggendaria, per definizione non rappresentativi. Ma sono ormai non pochi i casi di grandi investitori (da Kkr in giù) che acquistano “biblioteche” di diritti, vuol dire che pensano di poterli valorizzare».

Perché avete deciso di puntare su vinile e nastri magnetici?
«La nostra è una piccola scommessa. Esiste una domanda per prodotti audio di alta qualità, bisogna ingaggiarla e provare a generare valore in quel campo».

Avete scelto anche di entrare nel mercato degli Nft…
«Che oggi è messo in ombra dalla crisi delle criptovalute e che tuttavia non va confuso con esse. Stiamo parlando di prodotti che sono assieme digitali e scarsi e che pertanto devono essere utili, devono avere un valore riconosciuto da chi li ascolta come tale».

L’impressione è che dove risieda quel valore non sia sempre chiaro agli acquirenti potenziali.
«Un mercato non si crea in un giorno. Se saremo bravi riusciremo a sviluppare gli Nft musicali. Bisogna imparare a riconoscere quel tipo di prodotto, a identificarlo come qualcosa di diverso rispetto al brano che passa su Youtube, bisogna capire qual è la propria disponibilità a pagare. Non solo per una ragione di sostenibilità economica, ma ancor più per la dignità e il mestiere di chi la rende possibile col proprio lavoro, bisogna costruire un’offerta che stimoli una domanda di qualità. È una bella sfida».

da L’Economia – Corriere della Sera, 13 febbraio 2023

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