Le epidemie e le pandemie sono fenomeni sanitari. Il loro andamento è in parte legato a quello che, cammin facendo, comprendiamo essere il modo di comportarsi dei microparassiti che le causano. Ma è anche determinato dalle forme organizzative delle società umane nelle quali l’agente patogeno si stabilisce e colpisce, facendo ammalare o uccidendo più o meno persone con maggiore o minore rapidità.
Questi effetti non dipendono solo dai gradi di avvicinamento e distanziamento tra le persone – ma anche dalla ramificazione delle misure sanitarie, dall’adesione dei singoli alle misure di controllo e profilassi, dai pregiudizi sociali diffusi, dalla credibilità delle istituzioni, dalla demografia di una società che dipende spesso dalla sua capacità di generare ricchezza.
Tutte queste cose non restano necessariamente “costanti” durante un fenomeno epidemico. Possono cambiare, sia rispetto ai comportamenti individuali, sia rispetto alle aspettative generate dalle istituzioni pubbliche. Noi non siamo, checché pensino fisici e ingegneri che hanno inventato i modelli di maggior successo, palle da particelle di gas ideale, palle da biliardo.
In questa pandemia, molti hanno giocato a produrre “modelli” deterministici, con notevole influenza sulle scelte pubbliche. Il problema di quei modelli è lo stesso che aveva già individuato Adam Smith rispetto agli uomini «con spirito di sistema»: immaginano che gli individui siano come pedine sulla scacchiera, ma trascurano il fatto che, a differenza che agli scacchi, nelle società umane ciascun pezzo segue il proprio principio di moto.
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