Poiché i soldi non fanno da soli né la felicità né la difesa, una questione essenziale è comprendere da dove vengono e a cosa servono in concreto gli 800 miliardi del piano ReArm Europe.
Innanzitutto, sono soldi pubblici. La possibilità di agevolare la mobilitazione di investimenti privati appare, al momento, residuale. Ed è un primo spreco (di risorse e di occasione), perché si tratta di un settore comunque appetibile nei mercati finanziari e in cui si stima già un fabbisogno, prudenziale, di 4 miliardi di euro tra finanziamenti azionarie a debito solo per le piccole e medie imprese. E probabile che i finanziamenti privati si troverebbero qualora se ne facilitasse l’accesso, ostacolato, come ha scritto Mario Draghi nel suo Rapporto, «dall’interpretazione data dalle istituzioni finanziarie ai quadri di riferimento dell’Ue per la finanza sostenibile e ai quadri di riferimento ambientali, sociali e di governante», dalla complessità dei sistemi giuridici per le attività industriali e gli appalti nel settore e dalle politiche di esclusione della Banca europea per gli investimenti per le attività fondamentali di difesa.
Prima di mettere mano al portafoglio dei contribuenti, l’Europa che sa regolare dovrebbe consentire ai mercati di mettere mano ai loro portafogli, superando in concreto un doppio tic ideologico sul colore dei soldi privati per le armi. Da questo punto di vista sembra molto sensata la proposta del ministro Giorgetti, a quanto pare ben accolta dal Consiglio Ecofin, di sostenere i capitali privati attraverso un fondo di garanzia, sul modello di InvestEu.
Intanto, però, nel presentare al Parlamento il piano ReArm Ursula von der Leyen ha parlato di fonti di finanziamento pubblico, in prevalenza statale. In primo luogo, essi verranno dal maggior deficit consentito ai Paesi membri dall’attivazione della clausola di salvaguardia del Patto di stabilità, che permetterà ai bilanci nazionali di aumentare la spesa per la difesa, senza tener conto dei limiti previsti per le altre categorie di spesa. E da qui che la presidente della Commissione si attende il grosso degli investimenti (650 miliardi attesi), ma è anche da qui che il diavolo si nasconderà nei dettagli degli sprechi. Se è vero che finanziare la difesa o gli ospedali non può essere un gioco a somma zero, è anche vero che l’uscita dal radar della politica di espressioni come rigore di bilancio è il Bengodi di qualsiasi classe politica. In secondo luogo, gli Stati potranno, a loro discrezione, reindirizzare i fondi di coesione assegnati su progetti per infrastrutture, ricerca e sviluppo nel settore della difesa.
Infine, l’Ue si prepara a finanziare un nuovo strumento di prestito, per un importo massimo di 150 miliardi di euro e per una serie di investimenti in categorie predefinite dal Piano. Con questi prestiti, che andrà chiarito se rientreranno nel conteggio del deficit di cui sopra, gli Stati possono finanziare acquisti anche tramite procedure congiunte e con clausola di preferenza per le imprese europee.
Per approvare lo strumento finanziario, la Commissione ha proposto la procedura di emergenza, la stessa con la quale ha adottato il Next Generation Eu. I due strumenti in effetti potrebbero assomigliarsi molto. Proprio per questo, però, sarebbe bene trarre dall’esperienza dei Pnrr un insegnamento di fondo: peggio di non avere soldi è averli e non saperli spendere (bene). Il rischio non è solo quello di sprecarli in spesa improduttiva, rischio che a quattro anni dall’avvio del Pnrr possiamo sostenere di conoscere. Certo, il fatto che il Piano si chiami, strettamente, ReArm Europe e non più genericamente Defend Europe, come vorrebbe la nostra presidente Meloni, non basta ad assicurarci che i soldi non vengano usati per navigator 5.0 messi a scovare le fake news delle varie propagande di turno. Ma il rischio maggiore e specifico è persino un altro, e cioè quello di fare tanti investimenti nazionali differenziati la cui somma non fa una difesa comune, che, prima di essere ciò che l’Ue vuole, è ciò che serve per una maggiore forza di deterrenza.
Per questo, non sembra sufficiente parlare di appalti congiunti, ma si dovrebbe dare un senso sia economico sia strategico al necessario coordinamento e ragionare più per progetti collettivi. Decidere di comune accordo prima di tutto cosa serve, poi chi compra cosa, chi sviluppa cosa, chi finanzia cosa in un quadro di esigenze concordate e mutualità. D’altro canto, esistono già strumenti europei su cui innestare un coordinamento simile, dalla Cooperazione strutturata permanente in materia di difesa e sicurezza al Fondo di difesa europea.
Il Parlamento europeo ieri ha votato a larga maggioranza il Libro bianco sul futuro della difesa europea. C’è ancora il tempo perché si possa ragionare delle questioni più operative, ma è necessario farlo fin da ora perché, se sui principi l’Unione forse sta cominciando a ritrovarsi, è sui dettagli che rischia di perdersi.