Ormai sono sei i Paesi in cui il Trattato di Schengen è sospeso. Per alcuni di noi, è un piccolo shock: un trentenne italiano non aveva mai fatto il controllo-passaporti per volare in Francia.
La chiusura delle frontiere servirebbe per gestire meglio i flussi migratori: il che è tanto più urgente alla luce dell’esodo dei rifugiati siriani e del pericolo di eventuali infiltrazioni terroristiche.
Se in ballo c’è la nostra sicurezza, parrebbe essere un piccolo sacrificio: ci costa solo pochi minuti, minuti in cui è improbabile avremmo compreso finalmente il senso della vita o trovato l’anima gemella. Ma il non doverlo fare, quel piccolo sacrificio, è un pezzo della «libertà di movimento» che il Trattato di Schengen ci garantisce o ci garantiva.
Che Schengen sia stato sospeso senza proteste, se non molto blande, dimostra che lo Stato nazionale rimane il vero palcoscenico della politica. A dispetto di tutta la retorica europeista degli ultimi anni, sono i governi degli Stati a doversi guadagnare il consenso dei cittadini.
Non è detto che sospendere Schengen serva a granché, perlomeno rispetto agli obiettivi dichiarati. Presidiare il ponte di Oresund, che collega Copenhagen alla città svedese di Malmo, è relativamente semplice, così come ristabilire i controlli in aeroporto. Invece far rispettare i confini, monitorare tutto ciò che si sposta da una parte all’altra di queste linee immaginarie, non lo è e non lo è mai stato. Esattamente come è illusorio pensare che, all’interno del perimetro delimitato da quelle linee immaginarie, si possa sottoporre a un esame puntuale tutto quello che fanno «gli immigrati». Come se fossero perfettamente isolatili e distinguibili in quanto tali, mentre i «cittadini europei» continuano a vivere tranquillamente la propria vita.
Bloccare Schengen è tuttavia un’azione molto visibile. Ai politici serve per segnalare agli elettori che «stanno facendo qualcosa». Marcando le distanze dalle elaborate liturgie dei vertici europei. La chiusura delle frontiere potrebbe essere, per l’Unione Europea, il canarino nella miniera di una crisi irreversibile.
L’Unione è un impasto contraddittorio, come tutte le cose umane. L’obiettivo originario era quello di rendere permanente la pace fra gli Stati europei. Poi, è subentrata l’idea che alcune questioni fossero meglio risolvibili su scala «continentale». È stata una scommessa delle classi dirigenti, che all’idea europea restano in linea di massima fedeli.
Gli elettori, però, comprendono sempre meno quali problemi l’Europa risolva, e si convincono sempre di più che di problemi ne crea. Persino in un Paese tradizionalmente eurofilo come l’Italia, la reputazione di Bruxelles è ai minimi termini. Oggi, Unione Europea vuol dire burocrazia, vincoli di bilancio, euro. Bruxelles è effettivamente un’inesorabile fornace di nuovi regolamenti. Non passa giorno che il nostro governo non affermi o insinui che ai vincoli di bilancio dobbiamo la mancata crescita. L’euro doveva preservare i nostri risparmi dall’inflazione e consentirci di comprare e vendere merci e servizi senza doverci districare coi cambi, e l’ha fatto. Ma proprio l’indipendenza della Banca centrale europea, l’assenza cioè di una «direzione» politica esplicita (e quindi anche di un’esplicita responsabilità politica), lo ha reso lo spauracchio perfetto per la crisi di questi anni. Va detto poi che è sempre facile inventarsi un passato glorioso: ci si riesce addirittura per la lira.
Dire che senza Schengen l’Europa non avrebbe più ragion d’essere è sicuramente semplicistico. Come gli individui, anche le istituzioni hanno una sorta di istinto di sopravvivenza e si adattano alle circostanze che cambiano.
La possibilità di spostarsi liberamente è stata però uno dei pochi benefici dell’appartenenza europea percepito da tutti. Quando si pensa che stare in un club non dia alcun vantaggio, si lascia scadere la tessera.
Da La Stampa, 9 gennaio 2016