Per rifare l'Europa bisogna prima capire che il Leave non è regno della menzogna

A chiedere di riprendere in mano il proprio destino, a esigere più trasparenza e più accountability, non sono solo gli inglesi del Leave

28 Giugno 2016

Il Foglio

Franco Debenedetti

Presidente, Fondazione IBL

Argomenti / Teoria e scienze sociali

E adesso, rifare l’Europa! L’abbiamo sentito dire un po’ da tutti, e già questo desta sospetto. Ma a preoccupare sono gli obbiettivi che vengono indicati e i mezzi che vengono suggeriti per realizzare il vasto progetto.

Rifare l’Europa per “fargliela pagare”: quanto più possibile e quindi quanto più presto possibile, bruciare i tempi del divorzio per eliminare subito i vantaggi che il Regno Unito trae dall’accesso al grande mercato europeo. Un po’ autolesionistica come proposta, dazi e protezionismi costano a chi li impone, e il conto lo pagano i consumatori.

E pure arrischiata: nel mondo tira già un’aria di protezionismo, il maggiore aumento mai registrato dal 2009, quando il WTO ha iniziato a monitorarlo, un’aria che diventerebbe un tornado se Donald Trump dovesse vincere le elezioni. Un Paese come il nostro che ha un consistente avanzo della bilancia commerciale dovrebbe piuttosto badare a non essere lui a pagare.

“Fargliela pagare” per dare un esempio a chi, dei 27 restanti, potrebbe farsi venire cattive idee? In tal caso non sembra un granché incominciare a “rifare” partendo dal gruppo dei sei fondatori: già i paesi europei non euro si sentiranno meno protetti ora che non c’è più l’Inghilterra a garantire che i loro interessi vengano tenuti in considerazione.

In realtà sono altri i conti che alcuni vorrebbero regolare: si deve in grande misura alla Gran Bretagna e ad alcuni degli uomini che ha mandato alla Commissione se l’Europa è un mercato che garantisce libertà di concorrenza, libera circolazione di persone, merci, capitali, e la riduzione dei costi di transazione possibili in un mercato di 500 milioni di consumatori. Un debito di riconoscenza, per quelli del “fargliela pagare”, è un conto da saldare; la preoccupazione per il cambiamento di equilibri dopo Brexit diventa sollievo: finalmente può dilagare l’Europa socialdemocratica.

Neppure va molto meglio se si dice, con Renzi, che per rifare l’Europa bisogna “ritrovare lo spirito di Ventotene”. Il “mai più guerre sul suolo europeo” dice poco a chi teme l’immigrazione e soffre per la disoccupazione.
(E non è neppure tanto vero: dimenticata la Crimea?). Noi non siamo esportatori di democrazia, noi e il nostro soft power. Che poi si concreta nel gonfiare il petto, una volta contro Microsoft per i programmatori di software, oggi contro gli algoritmi per i tassisti, contro la rete per i giornali, contro big data per le identità degli utenti dei social network. E contro tutte le “multinazionali americane” per l’Agenzia delle Entrate. In realtà lo “spirito” che si vorrebbe evocare è quello di una “ever closer union” come passo avanti verso l’unione politica e fiscale. Non c’è solo Hollande e, come potrebbe non esserci?, Renzi, anche Sigmar Gabriel e Martin Schultz chiedono “un vero governo europeo”.

In Gran Bretagna, e neppure solo fra i conservatori, è radicata l’idea che l’Europa sia sostanzialmente un mostro burocratico, e che l’iperregolamentazione di Bruxelles si divori la riduzione dei costi di transazione. Ma a chiedere di riprendere in mano il proprio destino, a esigere più trasparenza e più accountability, non sono solo gli inglesi del Leave: in tutti i Paesi d’Europa quello che i cittadini esprimono è che vogliono piuttosto meno che più Bruxelles.

E che Europa pensano di rifare quanti dimostrano di avere perso il contatto con i cittadini e con la realtà? Chi pensa di aver convinto, che cosa dimostra di (non) aver capito Martin Schultz che, la mattina del venerdì ai microfoni della BBC dichiara con sicumera: “Questa non è una crisi per l’UE”? Se si vuole rifare l’Europa, bisogna invece partire dalla realtà, dalla Brexit. E’ quello che scrive Jochen Buchsteiner sulla Frankfurter Allgemeine di lunedì. Il voto per il Leave non è il frutto di una campagna menzognera, (e poi non è che gli argomenti per il Remain fossero tutti vangelo).

E anche col populismo meglio andarci piano: accusare Bruxelles di essere causa di ogni male l’hanno fatto personaggi politici, non solo i fogli scandalistici, il referendum stesso è stato lanciato per fini di politica di partito. Quello che gli inglesi vogliono sperimentare potrebbe essere più moderno di quello che molti vogliono credere. Dimostrano di aver fiducia nella forza del proprio paese, non pensano di isolarsi, il modello è il Canada o l’Australia, non la Corea del Nord. Nessuno sa se il loro progetto avrà successo, ma il fatto che la maggioranza di una nazione fondamentalmente razionale voglia correre questa avventura, dovrebbe dare da pensare all’Unione Europea.

Ed essere un solido punto di partenza per come rifarla

Da Il Foglio, 28 giugno 2016

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