Perché è sbagliato parlare di tassa rosa

Un'etichetta fantasiosa per indicare presunti rincari

8 Marzo 2017

Il Foglio

Massimiliano Trovato

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Dalle colonne della Stampa Roberto Giovannini denuncia il dramma della tassa rosa; e noi – abituati, in campo tributario, a vederne di tutti i colori – ci fiondiamo a leggere. Le nostre aspettative rimangono deluse: la tassa in questione non è l’ultimo parto d’un instancabile funzionario del fisco, bensì un’etichetta fantasiosa per indicare i presunti rincari in cui le donne incapperebbero strapagando prodotti che gli uomini possono, invece, procurarsi a prezzi più convenienti. Com’è possibile tollerare politiche tariffarie parametrate al numero di cromosomi X dell’acquirente? Ecco a voi la tassa rosa: “Tanto subdola quanto ingiusta e ingiustificata”.

Volete qualche dimostrazione? Gli shampoo e i “conditioner per capelli” – balsamo sarà una parola d’ordine del patriarcato – costano in media il 48 per cento in più; i jeans, il 10 per cento in più; le biciclette, il 6 per cento in più; fino ad arrivare all’oltraggioso caso dei rasoi Monoprix, già segnalato dall’ex ministro francese per le Pari opportunità, Pascale Boistard: quelli da donna venduti in confezioni da cinque a 1,80 euro; quelli da uomo distribuiti in pacchetti da dieci a 1,72 euro. E che dire del taglio di capelli, che alle donne costa in media “il doppio o il triplo” dei 20 euro pagati da un uomo? E dei “mille trattamenti estetici… sulla carta… facoltativi, ma” in realtà imposti al gentil sesso “da una massiccia e schiacciante pressione sociale”? Qui il punto non è nemmeno più il supposto differenziale di prezzo, ma il fatto stesso che le donne siano “costrette” a ricorrere a servizi di gli uomini possono fare a meno – come parlare di tassa azzurra per le sedute da Cesare Ragazzi.

Giovannini non menziona le fonti delle cifre citate: ciò impedisce di valutare l’effettiva equivalenza dei prodotti acquistati. Il mio barbiere Arnaldo – artista della macchinetta e buon conversatore, seppur juventino – pratica due tipi di taglio e licenzia ogni avventore in quindici minuti: offre lo stesso servizio di quei solerti parrucchieri per signora che massaggiano ogni ciocca individualmente e le fanno esprimere un ultimo desiderio prima di troncarla? Il mio shampoo è a base di shampoo; sarà forse assimilabile a quello della mia fidanzata, che contiene estratti di rabarbaro selvatico e tigre del Bengala per donare maggior lucentezza ai capelli?

Anche ipotizzando prodotti pressoché indistinguibili, è la percezione degli acquirenti che contribuisce a determinarne il prezzo: il sito Business of Fashion ha passato in rassegna alcuni store online, concentrandosi sugli articoli presenti in entrambe le versioni, maschile e femminile, e rilevando che un differenziale effettivamente esiste, ma ha più a che fare con ragioni industriali – il maggior livello di personalizzazione dei capi da donna, la diversa gestione del magazzino, il valore iconico di alcuni modelli… – che con non meglio precisati intenti discriminatori. Naturalmente, è il maggior prezzo applicabile a giustificare costi superiori, non il contrario. E, per dimostrare i relativi livelli della domanda, basti misurare il mercato mondiale dell’abbigliamento: quello maschile vale 417 miliardi di dollari, quello femminile 639 (dati Euromonitor).

Cosa possono fare, allora, le donne per sottrarsi alla tassa rosa? Semplicemente evaderla, privilegiando prodotti meno costosi o addirittura sfruttando le occasioni di arbitraggio offerte dai prodotti maschili. Nessuno vieta al ministro Boistard di acquistare rasoi da uomo, purché sia disposta a farsi arare l’epidermide già al secondo utilizzo. Insomma, uomini, per il bene delle vostre donne, quest’anno accantonate la solita mimosa e donate loro uno strumento d’autodifesa: un buon manuale di economia.

Da Il Foglio, 7 marzo 2017

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