9 Giugno 2017
Il Foglio
Franco Debenedetti
Presidente, Fondazione IBL
Argomenti / Teoria e scienze sociali
La vicenda Ilva, dopo cinque anni, sembra avviata a compimento. Se, come pare, lo stesso sarà per Alitalia e Mps, ci saremo liberati di tre ingombranti macigni. Ma una cosa è il sollievo, altra è la soddisfazione: che in questo caso è del tutto fuori luogo. Perché mentre Alitalia perdeva soldi fin da quando era dell’Iri e turbava i sonni di Prodi; mentre non c’era ancora l’euro quando la singolarità di una banca municipale nel mondo della finanza globalizzata suscitava i sarcastici commenti di Massimo D’Alema; l’Ilva privatizzata produceva acciaio e generava profitti, l’uno e gli altri in apprezzabile quantità. In cinque anni, dall’ordinanza del gip di Taranto, Patrizia Todisco, che a luglio 2012 ordinava il sequestro dell’area a caldo dell’Ilva, “senza alcuna facoltà d’uso degli stessi a fini produttivi”, la società ha perso circa 4 miliardi e a oggi restano da fare alcuni miliardi di investimenti ambientali e industriali, che il nuovo acquirente si è impegnato a eseguire; svaniscono alcune migliaia di posti di lavoro; non abbiamo più la nostra voce nel club degli acciaieri europei, dove si spartiranno i vantaggi derivanti dai dazi imposti dall’Europa sull’acciaio cinese. Un bilancio così costoso esige almeno di chiedersi se non si poteva far di meglio, e capire perché non lo si è fatto.
Di meglio si poteva fare, e non solo nel senso generico come in ogni vicenda umana: in questa storia ci sono stati almeno due momenti in cui c’è stata la possibilità di azionare uno scambio e dirigere l’azienda su un binario diverso. Uno è quello dopo il primo sequestro, nel luglio 2012. Il problema dell’inquinamento dello stabilimento era noto da sempre: nel 1971, sei anni dopo l’inaugurazione con Saragat, Antonio Cederna descriveva quello tarantino come “un processo barbarico di industrializzazione; un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi 2.000 miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento, non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sottovento”. Invece lo stato, a metà degli anni Settanta, raddoppiò lo stabilimento. L’ordinanza del luglio 2012 viene dopo una serie di analisi ambientali, molto contestate, di proposte, di interventi: quattro mesi prima il governo aveva riaperto la procedura AIA, e nei mesi seguenti si era trovato l’accordo su un piano di bonifiche urgenti, il Parlamento aveva approvato una legge, i Riva, agli arresti domiciliari, si erano impegnati a contribuire per circa 2 miliardi.
Il secondo momento è il dicembre 2013, quando la Cassazione annulla senza rinvio il decreto di sequestro firmato nel maggio 2013 dal gip Todisco, che imponeva di mettere i sigilli a beni dei Riva per 8,1 miliardi, quanto i custodi giudiziari avevano stimato fossero gli investimenti necessari al ripristino ambientale degli impianti. La sentenza smontava l’impianto accusatorio e dava clamorosamente ragione ai Riva, l’azienda era ancora funzionante (sarebbe finita in amministrazione controllata solo un anno dopo): perché non si è scelta una strada diversa? Era naturale che a realizzare le bonifiche dovessero essere chiamati i Riva: perché, finché erano proprietari, gli toccava di farlo, e perché erano gli unici ad avere le competenze per pilotare un gruppo così complesso (Genova e Novi, oltre a Taranto). Dopotutto l’Ilva, quando l’avevano comperata nel 1995 per 1.500 miliardi (tra cash e debiti), perdeva 1.000 miliardi (di lire) l’anno; e nel 2012, dopo investimenti per 6 miliardi di euro (di cui uno in misure ambientali) aveva un patrimonio netto di 3,6 miliardi.
Ma c’erano pregiudizio anticapitalistico e terrorismo ambientalistico. Pregiudizio contro una proprietà privata (forse anche contro la privatizzazione), colpevole di perseguire “con coscienza e volontà la logica del profitto”, come si legge nell’ordinanza del 2012; e di trarre notevole vantaggio economico evitando con “consapevole omissione” di ammodernare un impianto che “genera malattia e morte”, come si legge nella motivazione del sequestro degli 8,1 miliardi.
Terrorismo ambientalistico basato su rilevazioni e statistiche non sempre accurate e sempre contestate, che hanno portato all’indeterminatezza sul da farsi, dalla riduzione della produzione, al preridotto, alla richiesta (unica in Europa) di coprire i parchi minerari, un’area di 70 ettari, con quello che sarebbe stato il più grande edificio al mondo.
Ci andava un’intesa, tra magistratura, ambientalisti, proprietà, e solo il governo poteva porsene a capo. Ma erano anni difficili, e i governi ritennero di non avere la forza per contrastare demonizzazione della proprietà e allarmismo ambientalistico, entrambi cavalcati e sfruttati dalla politica locale, e per fornire garanzia che i piani proposti erano adeguati e che sarebbero stati eseguiti. Il capitale finanziario c’era, è mancato il capitale di fiducia. La fiducia è un bene pubblico: in questo senso l’Ilva è un caso di scuola; per questo sarebbe una (costosa) occasione sprecata non tenerlo a mente.
Da Il Foglio, 9 Giugno 2017