Perché i taxi scioperano “contro Uber” ed è ora di aprire una discussione seria su trasporti e digitale

Ma è difficile fare le riforme, se non si è pronti a resistere alle proteste

22 Febbraio 2017

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Martedì il governo incontrerà i rappresentanti dei tassisti. È il primo successo delle manifestazioni degli scorsi giorni. Le auto bianche hanno il calendario dalla loro parte: mercoledì incomincia a Milano la settimana della moda, momento quantomai delicato per traffico e mobilità.

Come arma negoziale, blocco della circolazione e traffico selvaggio negli anni si sono rivelati molto efficaci. A cominciare da quando essi servivano semplicemente per impedire l’emissione di nuove licenze. Tant’è che gli ultimi a farlo sono stati Gabriele Albertini da sindaco di Milano (2001) e Walter Veltroni da sindaco di Roma (2007).

Ma perché i tassisti hanno incrociato le braccia, questa volta? È vero, Matteo Renzi nel 2014 definì Uber «un servizio straordinario». Il suo governo, però, non ha “sistemato” la questione Uber, definendo un quadro normativo semplice, che non venga reso obsoleto dall’innovazione dei servizi. UberPop, che è il «vero» Uber, quello che consente a chiunque di offrire un passaggio a pagamento, è stato bloccato dal tribunale di Milano nel 2015.

I taxi giocano in attacco e non semplicemente in difesa. Protestano contro un emendamento al Milleproroghe, a firma di Linda Lanzillotta, che rimanda al 31 dicembre 2017 il termine entro il quale il ministero dei Trasporti deve emanare i decreti legislativi previsti da una norma dello scorso anno contro l’esercizio abusivo del servizio taxi e Ncc.

In questo modo, viene sospesa l’efficacia di un articolo della legge quadro del 1992, che contiene un codicillo per cui gli autisti di Ncc dovrebbero tornare alla propria autorimessa fra un servizio e l’altro. Badate bene: la norma è del 1992, quando i telefoni cellulari erano roba per pochi. Da allora ne è stata costantemente rimandata l’applicazione. La legge quadro era già stata rivista nel 2010 (al governo c’era il centro-destra, sensibile alle istanze dei tassisti): stesso discorso. Uber, fondata nel 2009, ha cominciato ad operare a San Francisco nel 2011.

Evidentemente sin dai primi anni Novanta il legislatore italiano si era accorto di aver immaginato una normativa fuori dal mondo. Pensate a un signore che offre il servizio di noleggio con conducente, e un bel giorno si trova a portare un suo cliente da Milano a Forte dei Marmi. A un certo punto riceve una chiamata: un altro suo cliente, che si trova a Sestri Levante, vorrebbe che andasse a prenderlo per riportarlo a Cologno Monzese. Davvero pensiamo che dovrebbe tornare a casa, sostare per cinque minuti in garage, e poi riprendere al contrario un’autostrada che ha appena percorso nella direzione opposta?

Il problema pre-esiste a Uber. Grazie alla App, però, domanda ed offerta si incontrano più facilmente. L’Ncc non ha più un bacino d’utenza limitato a chi già lo conosce o reperisce i suoi contatti tramite amici, o il suo sito internet. Soprattutto, l’autovettura diventa “visibile” ai clienti potenziali che si trovano nelle vicinanze. Il che vorrà dire che loro hanno tempi d’attesa ridotti, ma anche che il conducente può ridurre i tempi morti fra una corsa e l’altra e migliorare la resa delle sue ore di lavoro.

Su una cosa i tassisti hanno indubbiamente ragione. È un po’ scandaloso che da venticinque anni a questa parte si vada avanti di pecetta in pecetta, di rammendo in rammendo. Il legislatore italiano pare trovare più comodo, quando si accorge di aver fatto un errore, posticiparne l’entrata in vigore, anziché abrogare una norma sbagliata. Arduo elogiarne il rigore e la chiarezza di pensiero. D’altro canto, pure il parlamentare è un animale che impara dall’esperienza. E se l’esperienza è che la regolamentazione dei taxi è più pericolosa dei cavi ad alta tensione, perché basta un sussurro di un sottosegretario per far piombare le città nel caos, si capisce la scelta di procedere per rinvii affogati nelle pieghe di un decretone, nella speranza non vengano notati.

L’ultimo serio tentativo di incidere sul settore per via legislativa sono state le “lenzuolate” di Bersani. Correva l’anno 2006. Anche allora, la protesta dei tassisti fece giustizia della possibilità di cumulo di licenze e della “doppia targa” (la facoltà di usare più di una macchina con la stessa licenza) che il Ministro dell’Industria voleva consentire per accrescere l’offerta.

Il mondo è cambiato. Le app come Uber o Lyft mettono in discussione lo stesso servizio taxi per come è stato pensato fino ad oggi. Che a poterlo fornire fossero essere solo le auto bianche, e che i loro guidatori operassero su licenza pubblica, era una necessità. Bisognava che quanti erano disponibili ad offrire un passaggio in auto in cambio di quattrini fossero chiaramente identificabili: macchine tutte dello stesso colore, la scritta “taxi” sul tetto. Ed era utile figurassero in un elenco pubblico per essere “tracciabili”. Oggi la tecnologia ha risolto un problema e l’altro.

Sarebbe il momento di aprire una discussione più seria, di ragionare sull’impatto delle App, di pensare a strategie di compensazione di chi teme si eroda il valore della sua licenza, dalla vendita della quale si aspetta conforto nell’età della pensione. Ma è difficile fare le riforme, se non si è pronti a resistere alle proteste.

Da La Stampa, 20 febbraio 2017

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