L’affare Albania ha accesso un doppie livello di scontro del governo con la magistratura. Uno sano e uno insano.
La gestione dei flussi migratori è un cerchie che non si chiude e la difficoltà con cui l’Unione europea e gli Stati membri faticano a trovare la quadra ne è dimostrazione. E un equilibrio pressoché impossibile non solo tra solidarietà e sicurezza, tra i diritti umani e gli interessi dei governi, ma anche tra i diversi e imprevedibili effetti che le migrazioni possono comportare. Su temi così difficili, le istituzioni rivendicano le loro ragioni, ognuna coi propri strumenti. E questo lo scontro sano, di cui le democrazie costantemente si nutrono e con cui evolvono, trasformando le regole dello stare insieme.
Il decreto legge che il governo annuncia di aver approvato in Consiglio dei ministri, al momento, non serve a nulla, se non a richiamare gli elettori liguri alle urne. Dal punto di vista della compatibilità con il diritto europeo vigente, non importa che la lista dei Paesi sicuri sia contenuta in un decreto legge o in un regolamento ministeriale. Non importa la natura e la veste formale della regola: se c’è un conflitto tra una norma direttamente applicabile dell’Unione europea e una nazionale, prevale la prima e i giudici devono disapplicare la seconda. Peraltro, al di là di quale sia e dove sia la lista dei Paesi sicuri, il controllo della magistratura serve proprio a verificare caso per caso che i richiedenti asilo siano protetti come ogni persona merita.
Meloni, Piantedosi e soprattutto Nordio questo — c’è da scommetterci — lo sanno. Le loro reazioni e dichiarazioni fanno probabilmente parte solo di una sorta di sceneggiatura del conflitto. Dietro le quinte, tuttavia, potrebbe esserci un disegno più articolato, razionale ma più difficile da spiegare in un rigo.
Indubbiamente, il governo sta cercando di guadagnare tempo. Se questo temporeggiare fosse fine a se stesso sarebbe improduttivo e anzi dannoso per tutti. Per la credibilità delle istituzioni, per la salute del confronto tra potere giudiziario e politico, per il destino dei migranti trattenuti. Entro giugno 2025, tuttavia, la Commissione europea dovrà riesaminare il concetto di Paese terzo sicuro, potendo anche arrivare alla conclusione che quel concetto vada rivisto. Lo prevede il Patto sulla migrazione e l’asilo approvato nel maggio scorso.
In uno scontro istituzionale sano, quindi, quella che sembra una mossa del tutto scomposta condita da apparenti, grossolani svarioni del governo e del ministro Nordio può assumere una sua razionalità: guadagnare tempo e intanto preparare il terreno per arrivare a convincere la Commissione — in questo momento più facilmente convincibile anche solo di un anno fa — che il concetto di Paese sicuro va ridefinito e ampliato. Un decreto legge, in questo senso, può aiutare: potrebbe essere lo strumento attraverso cui, ad esempio, arrivare a rivolgere un quesito alla Corte di giustizia europea sul significato del concetto, alla luce magari della ridefinizione della Commissione. Se fosse così, comprare tempo con iniziative apparentemente insensate ha, invece, un suo senso. Spesso, è la magistratura a provare a cambiare le regole con il mezzo che ha disposizione, ossia con l’interpretazione o con il ricorso alla Corte costituzionale. Accade spesso con i temi sensibili sui quali le maggioranze di governo faticano a intervenire.
Accanto a questo livello «sano», però, c’è un livello «insano», che è quello che si vede e di cui l’attivismo del governo è solo una parte del tutto. La pubblicazione (parziale) dell’email di Paternello e la ripubblicazione (parziale) di Meloni non tolgono nulla alla inopportunità di ciò che il magistrato ha scritto. Il problema è che la questione della magistratura politicizzata e delle toghe rosse non è mai stata superata. E non lo è stata perché la magistratura come organo costituzionale per prima, con le sue correnti politiche interne, con le sue battaglie a ogni riforma dell’ordinamento giudiziario, con il suo passaggio dalle aule giudiziarie alle campagne elettorali, con il suo esercizio autocratico della prerogativa dell’indipendenza ha perso, da tempo, molta della credibilità che pure buona parte dei giudici, singolarmente presi, meriterebbe di avere.
La presidente Meloni ha davanti a sé due strade. O usare l’immigrazione come terreno per rinnovare questo conflitto, forte del discredito che la magistratura come ordine, negli anni, ha raccolto attorno a sé. O separare i due livelli e evitare una strumentalizzazione che, per quanto facile, non è di alcun interesse all’interesse comune. Che è, come ha detto il presidente Mattarella, quello di collaborare per il buon funzionamento delle istituzioni e per il servizio da rendere alla comunità. Italiana e straniera.