30 Aprile 2019
Il Foglio
Carlo Stagnaro
Direttore Ricerche e Studi
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Tutti quelli che guardano con speranza al risultato delle elezioni spagnole cercandovi la conferma che la marea populista si sta ritirando dovrebbero compilare un questionario di autovalutazione del nostro paese. Se la torta apparecchiata dagli elettori iberici appare più gustosa della sbobba che gli italiani si apprestano a ingurgitare, è anzitutto perché gli ingredienti (cioè i partiti) sono di migliore qualità. Qualunque cosa succeda, che si vada verso un monocolore del Psoe oppure verso un’alleanza con Podemos o Ciudadanos, il nuovo governo si metterà a costruire il futuro, non a sovvertire il passato; a governare, non a destabilizzare.
A uno spettatore italiano non può sfuggire un curioso parallelismo: al netto dei movimenti centrifughi (catalani e baschi), ciascuno dei nostri partiti ne ha uno corrispondente in Spagna, però lì è migliore.
Il Psoe (Partido socialista obrero español) e il Pp (Partido popular) appartengono alle stesse famiglie europee del Partito democratico e di Forza Italia, rispettivamente (i socialisti e i popolari). Il successo dell’uno e la sconfitta dell’altro sono essenzialmente il risultato di dinamiche recenti: il carisma di Pedro Sanchez, da un lato, e i cocenti errori di Mariano Rajoy, dall’altro.
Ma per comprenderne la performance occorre anche tenere presente che queste due forze si sono avvicendate alla guida del paese negli ultimi decenni, e hanno sostanzialmente condiviso i pilastri delle riforme che hanno rimesso in moto l’economia spagnola. Tra il 2009 e il 2019, la spesa pubblica è scesa dal 45,8 al 41,3 per cento del pil, dopo aver raggiunto il picco del 48,1 per cento nel 2012. Il deficit, che aveva toccato livelli stellari per il collasso del sistema bancario (11 per cento nel 2011), oggi è sotto controllo al 2,5 per cento. Conseguentemente il debito, all’incirca raddoppiato in proporzione al pil tra il 2009 e il 2014, finalmente sta scendendo. In questo periodo, il paese ha ripristinato la crescita e la fiducia attraverso un’impressionante serie di riforme: nel rapporto Doing business, la Spagna è passata dal quarantanovesimo posto del 2009 al trentesimo del 2018.
Questi risultati sono anche il frutto della coraggiosa scelta di chiedere, nel 2012, l’intervento della Troika, scambiando gli aiuti con l’impegno (credibile e rispettato) a risanare il bilancio e stimolare la competitività. Viene da chiedersi se l’Italia oggi non starebbe meglio, se avesse compiuto la stessa scelta all’epoca del governo Monti.
Naturalmente, il Psoe e il Pp hanno prospettive assai distanti su molti aspetti, inclusa la politica economica, come dimostrano i più recenti interventi di Sanchez in campo fiscale. Tuttavia, il patrimonio di riforme degli scorsi anni appartiene al comune sentire, inclusi gli enormi passi avanti fatti sul mercato del lavoro e la produttività. Né la vittoria del Psoe, né il crollo del Pp esprimono il rigetto delle riforme (che invece vediamo negli scivolamenti di Forza Italia e nella vergogna che il Pd sembra provare per la stagione renziana): semmai, riflettono rispettivamente il carisma di Sanchez e il disastro di Rajoy in Catalogna.
Che dire dei protagonisti della nuova fase della politica spagnola? Podemos nacque come forza anti-establishment ed è facile accostarlo al Movimento 5 stelle. Ma Podemos non nacque da un “vaffanculo”, né è incapace di trovare un collante diverso dal vacuo richiamo all’o-ne-stà. Podemos ha un profilo ideologico ben preciso, che nasce dal tentativo di dare dignità ideologica al movimento degli indignados attraverso un apparato concettuale certamente di estrema sinistra, ma non eversivo.
Al lato opposto si trova quella che al momento appare come la formazione più antisistema: la destra radicale di Vox, che con la propria avanzata ha per un verso trascinato in direzione neofranchista il Pp e i liberali di Ciudadanos, per l’altro stimolato la mobilitazione sociale da cui Sanchez ha tratto vantaggio. Vox è un movimento nazionalista e reazionario sul piano dei diritti civili. Quindi ha molto in comune con la Lega. Al tempo stesso, rivendica una posizione atlantista (a differenza del partito di Salvini che è filo-russo) e in politica economica chiede, contrariamente alla Lega, misure liberiste (liberalizzazioni, privatizzazioni, tagli delle tasse e della spesa). In sintesi, i populisti spagnoli sembrano le naturali ali estreme di un sistema fondamentalmente sano, non l’equivalente politico della maionese impazzita. Non a caso, rimangono subalterni alle forze centriste, né tantomeno possono o vogliono governare assieme.
Tra i partiti spagnoli attivi a livello nazionale, Ciudadanos è l’unico che non abbia una controparte italiana vera e propria. Trattandosi di un movimento tendenzialmente liberale ed europeista, che al Parlamento Ue si riconosce nell’Alde, in principio sembrerebbe l’alter-ego di +Europa. Ci sono però differenze enormi, qualitative e quantitative. In primo luogo, mentre Ciudadanos è ormai una realtà consolidata, +Europa deve ancora superare lo svezzamento. Secondariamente, i liberali spagnoli pendono a destra (addirittura in Andalusia sono al governo con Vox), mentre gli italiani sono accampati col centrosinistra. E’ difficile quindi, dire se +Europa sia una sorta di Ciudadanos in potenza, o se Ciudadanos non sia la risposta spagnola alla crisi del Pp che in Italia ancora non abbiamo e che non riesce a colmare il vuoto lasciato da una sempre più claudicante Forza Italia.
Sia come sia, e vadano come vadano le cose a Madrid, osserviamo le elezioni spagnole con due certezze: un sospiro di sollievo, perché l’ondata populista non travolge il paese. E un pizzico di invidia, perché i cugini sono più giovani, crescono di più, fanno riforme più coraggiose e hanno un sistema politico superiore al nostro. Resta da capire se sia una politica migliore a produrre una società più dinamica o viceversa, ma forse questa è una di quelle domande di cui è meglio non conoscere la risposta.
Da Il Foglio, 30 aprile 2019