Ideale di Ayn Rand è un romanzo del 1934 rimasto a lungo inedito. L’autrice decise di lasciarlo nel cassetto e di trasformarlo in una pièce teatrale. La trama è presto detta: Kay Gonda, un’attrice modellata su Greta Garbo, è in fuga inseguita dall’accusa di omicidio. Cerca rifugio presso i fan che le avevano scritto lettere nel corso degli anni. Lettere nelle quali dicevano di vedere nella attrice stessa l’incarnazione dei propri ideali. Gonda quindi incontra una serie di personaggi che decidono però di tradirla, incapaci di vivere all’altezza delle idee che proclamano. La recente edizione Corbaccio unisce il romanzo alla sceneggiatura e presenta una interessante serie di interventi. Ideale è una guida filosofica all’ipocrisia, come scrive Leonard Peikoff nella introduzione alla sceneggiatura. Si legge in una nota del diario della Rand datata 9 aprile 1934, dunque coeva alla stesura di Ideale: “Credo – e intendo raccogliere il necessario per dimostrarlo – che la peggiore disgrazia per l’umanità sia la sua capacità di considerare gli ideali come qualcosa di astratto e slegato dalla propria vita quotidiana. La capacità di vivere e pensare in modo alquanto differente, in altre parole tagliando fuori il pensiero dalla propria vita reale. Ciò si applica non agli ipocriti intenzionali e consapevoli, ma a quelli più pericolosi e inetti che, ammettendolo solo a se stessi, tollerano una completa frattura fra i propri convincimenti e la propria esistenza, e frattanto credono di avere dei principi. Per loro, i propri ideali o la propria vita sono privi di valore, e di solito accade che lo siano sia gli uni che l’altra”. Si tradiscono gli ideali in nome della rispettabilità sociale e del benessere delle masse, per la supposta volontà di Dio e per un eccesso di malinteso edonismo. Qualcuno nega l’esistenza stessa dell’ideale e si rifugia nel nichilismo al fine di evitare ogni forma di coinvolgimento nella vita, potenzialmente doloroso.
Nei romanzi seguenti, Noi vivi e Antifona, Ayn Rand ci mostra al contrario a quale degrado possa giungere la condizione umana quando l’ideale sbagliato prende il sopravvento. L’ideale sbagliato è il collettivismo, inizialmente declinato nella storia (Noi vivi) e dunque nella Unione Sovietica, paese nella quale la Rand era cresciuta fino alla “fuga” negli Stati Uniti. Ma il collettivismo è la minaccia che incombe in ogni società ed è la direzione verso la quale ogni società si incammina quando si avvicina alla decadenza. Da questa convinzione discende l’idea di calare il collettivismo nel futuro distopico di Antifona (da qui in poi cito dalla edizione Liberilibri, introdotta da Gianfranco de Turris e tradotta da Nicola Iannello).
Nella prefazione alla seconda edizione (1946, la prima risale al 1938) Ayn Rand risponde alle critiche che le furono mosse, in sostanza di essere stata ingiusta con gli ideali del collettivismo, che sarebbero diversi da quelli denunciati dal romanzo. L’autrice scrive di essere ancora più convinta di aver visto giusto. “‘Guadagni sociali’, ‘scopi sociali’, ‘obiettivi sociali’ sono diventati le banalità quotidiane del nostro linguaggio. La necessità di una giustificazione sociale per ogni attività e per ogni cosa esistente è adesso data per scontata. Non c’è proposta abbastanza oltraggiosa per la quale il suo autore non possa ottenere ascolto e approvazione rispettosi se dichiara che in qualche modo indefinito essa è per il ‘bene comune’”. Il collettivismo dunque vincerà se non ci opponiamo. E vincerà con l’arma del linguaggio. Un tema centrale in tanta letteratura distopica a partire da 1984, il capolavoro di George Orwell. Proseguiamo nella citazione: “La colpa più grande oggi è quella delle persone che accettano il collettivismo per debolezza morale; delle persone che cercano protezione dalla necessità di prendere posizione, rifiutando di ammettere con se stesse la natura di ciò che stanno accettando; persone che sostengono piani specificamente progettati per realizzare la servitù, ma che si nascondo dietro la vuota asserzione di amare la libertà, senza alcun significato concreto connesso alla parola; persone che credono che il contenuto delle idee non abbia bisogno di essere esaminato, che i principi non abbiano bisogno di essere definiti e che i fatti possano essere cancellati tenendo gli occhi chiusi”. Siamo dunque ancora nel campo dell’ipocrisia intellettuale e della mancanza di responsabilità morale già esplorato in Ideale.
Veniamo al romanzo. Dopo una terribile guerra, c’è stata la Grande Rinascita, definizione altisonante per un tetro mondo ove regna il collettivismo. L’individuo è stato cancellato. L’uguaglianza nella completa miseria è imposta col pugno di ferro, attraverso il controllo ossessivo dei vari Consigli, ovvero i Soviet del futuro. Lo Stato decide tutto per tutti: quale sarà il nostro nome, quale lavoro svolgeremo, quale sarà il ritmo delle nostre giornate, quale donna ci darà un figlio. Il divertimento è bandito, il tempo libero è occupato dalla propaganda. Superata la quarantina, ormai consumati dal lavoro, gli uomini sono rottamati in ospizi che assomigliano tanto a cliniche della morte, infatti nessuno riesce a sopravvivere più di qualche anno in questi luoghi. Sapere e creatività sono banditi. Il collettivismo ha portato al regresso tecnologico. Ufficialmente regna la felicità ma la paura vaga per la città, una paura avvertita da tutti. Alcune parole sono indicibili, una in particolare che il protagonista scoprirà soltanto dopo essere fuggito da questa immane caserma.
Il protagonista, si diceva. Si chiama Uguaglianza 7-2521. Il nome è composto da un numero e un ideale al fine di cancellare l’identità. Gli altri nomi-ideali assegnati sono Internazionale, Fraternità, Unione, Solidarietà, Collettivo, Democrazia, Alleanza, Armonia. Uguaglianza 7-2521 è destinato alla ribellione. È un diverso fin dall’inizio a causa della sua statura fuori dalla media. Ma la fuga dalla massa verso la scoperta del proprio io comincia con l’amore e con la creatività. Il sentimento non ammette catene. E il sapere, stimolando lo spirito d’iniziativa, ci spinge a farci artefici del nostro destino. Quando Uguaglianza 7-2521 scopre l’elettricità, obliata dal mondo della Grande Rinascita, ha già preso la strada che lo condurrà all’auto-esilio. Una misteriosa foresta inesplorata lo attende oltre la periferia della città. La leggenda vuole sia un luogo da cui non si torna, estremamente pericoloso. Ma per Uguaglianza 7-2521 addentrarsi nella foresta, insieme alla donna che ama, Libertà 5-3000, equivale a addentrarsi nella propria anima, nel proprio inconscio. L’Uguaglianza è finita. È tempo di trovarsi un altro nome, di abbandonare il noi per arrivare all’io. Uguaglianza si ribattezza Prometeo. Libertà si ribattezza Gea.
Questa, a grandissime linee, la storia che ha illustri precedenti (Noi di Eugenij Zamjatin, vietato in Russia fino al 1991 ma tradotto in lingua inglese nel 1924) e illustri eredi (il già citato 1984 di George Orwell).
Perché oggi dobbiamo leggere Antifona? La prima risposta può anche sembrare banale ma non lo è, visto che oggi i romanzi sono considerati in virtù della trama e del contenuto, e non in virtù della scrittura. Il primo motivo per leggere Antifona è dunque la sua pura e semplice bellezza letteraria, ottimamente resa dalla traduzione italiana di Nicola Iannello. Il tono visionario da profezia biblica, la potenza di molte immagini, la capacità di fare un romanzo con le idee, più che con i personaggi, senza perdere l’attenzione del lettore: sono qualità rare. Antifona le possiede. E le ha conquistate come mostrano le varianti autografe sul manoscritto dal quale, attraverso altri codici intermediari, nasce la prima edizione. Nel manoscritto, il romanzo è lungo circa il doppio. Le correzioni della Rand sono numerose ma raramente intaccano la sostanza e la trama. Tra gli episodi espunti, segnalo soltanto quello della Lista dei dannati inceneriti. I ragazzi che a 15 anni mostrano i segni di una difficile integrazione vengono condotti ai forni crematori. La scena è rimossa nel 1937 ma chiaramente anticipa il disastro che attende l’Europa. C’è poi un gruppo di varianti che interessano la psicologia del protagonista. Inizialmente votato al martirio, correzione dopo correzione prende confidenza con l’idea di battere il sistema. Molte correzioni vanno nella direzione di levare tutto il superfluo. Come spiega l’autrice stessa, “lo sforzo di ottenere quello stile semi-arcaico fu molto duro”. I modelli sono la Bibbia e lo Zarathustra di Nietzsche.
Antifona non perderà mai forza. Anche nel caso che il mondo vada verso la libertà e non verso il collettivismo, come temeva Ayn Rand, il romanzo resta un monito fortissimo contro il conformismo e l’ipocrisia. Ma voglio entrare un po’ più nel testo, con alcune citazioni che credo testimonino contemporaneamente la bravura della Rand nello scolpire i concetti sulla pagina e nell’affondare il coltello nelle eterne piaghe della società, di qualunque società.
Ci sono passaggi di singolare attualità. Quando Uguaglianza decide di mostrare la sua scoperta, l’elettricità, al Gran Consiglio, si sente muovere obiezioni ideologiche che porteranno alla scelta di conservare, contro ogni logica, le vecchie candele. “Nessun singolo può avere una sapienza più grande dei molti Studiosi che sono eletti da tutti gli uomini per la loro sapienza”. “Ciò che non è pensato da tutti gli uomini non può essere vero”. “Ciò che non è fatto collettivamente non può essere buono”. Sono parole che mi hanno fatto pensare alla democrazia digitale. C’è una certa ideologia, diffusa nella Rete, che pure nasce come strumento anarchico e libertario, che qualcuno ha definito maoismo digitale. Lo ha fatto Jaron Lanier, uno dei pionieri della realtà virtuale. Il sapere collettivo sarebbe superiore alla ricerca individuale, perché la quantità di informazione si trasforma automaticamente in qualità. L’innovazione però continua a provenire da idee dei singoli. E Wikipedia, con la sua partigianeria, sembra smentire la perfezione del sapere collettivo. Se poi ci addentrassimo nel campo della politica, forse il pensiero di Ayn Rand potrebbe spiegare il motivo per cui votazioni e plebisciti on line non garantiscono affatto la selezione di una classe dirigente migliore della precedente. Né costituiscono un buon metodo per amministrare una volta giunti al potere.
Quando Uguaglianza scopre l’ingresso dell’antica metropolitana che lo condurrà alla scoperta dell’elettricità, si pone il problema: entrare è lecito o illecito. Deciderà di entrare. Ma l’obiezione che deve superare è la seguente: “Poiché il Consiglio non sa di questa buca, non ci può essere alcuna legge che permetta di entrarci. E tutto ciò che non è permesso dalla legge è proibito”. Anche in questo caso, l’attualità è lampante. Il problema è ben noto, siamo sommersi da tonnellate di leggi, ora anche da quelle europee. Anche il presupposto ideologico di questa situazione è ben noto: lo Stato è proprietario di tutti i nostri diritti, e ce li concede uno ad uno, con cortesia variabile a seconda dei casi. Nel recente dibattito sul referendum costituzionale, mi è capitato di ascoltare una frase, da parte di un sostenitore del sì, che suonava all’incirca: “Con il nuovo assetto potremo approvare più leggi”. Naturalmente, lo spirito della riforma non è questo (semmai si tratta di approvarle rapidamente) ma questa frase riflette comunque la mentalità corrente. Tutto va regolato dallo Stato.
Infine, le frasi che mi hanno colpito di più. “La parola ‘Noi’ è come calce viva versata sugli uomini, che si rapprende e s’indurisce come pietra, e distrugge tutto sotto di sé, e ciò che è bianco e ciò che è nero si perdono egualmente nel suo grigiore. È la parola con cui il depravato ruba la virtù del buono, con cui il debole ruba la forza del forte, con cui gli stupidi rubano la sapienza dei saggi”. Nell’epoca del politicamente corretto ‘Noi’ è il grimaldello col quale truccare ogni dibattito, mascherare (e sdoganare) iniziative fintamente umanitarie e realmente ciniche, delegittimare chiunque sia fuori dal coro perché al Noi preferisce l’Io. Questo è il tempo dei socialisti umanitari, che amano o fingono di amare tutte le cause disperate del mondo per insinuare un dubbio. Se possiamo, attraverso l’accoglienza e la cooperazione, salvare i “miserabili” del Terzo mondo, perché non estendere tale piano anche a coloro i quali vivono in povertà entro i confini della nostra ricca società? È il ritorno dell’utopia sconfitta nel 1989. L’utopia, scacciata dall’Europa, ha fatto il giro del pianeta, si è ritemprata ed è tornata a casa. Il socialista umanitario ha imparato la lezione. Per vincere, la rivoluzione deve essere buona, non deve fare paura. Deve ammantarsi della parola magica che sdogana tutto: Noi.