I telefonini causano il cancro? A Ivrea un giudice del lavoro ha stabilito che esiste un legame fra l’uso prolungato del cellulare e i tumori. Quando il cancro entra in un’aula di giustizia tutti simpatizziamo coi malati. Non capiamo come il male scelga le sue vittime. Ma ci consola il pensiero che ci sia un colpevole.
Una volta spiegavamo le carestie con la furia degli dei. Oggi abbiamo a disposizione più conoscenze di quante ne abbiamo mai avute: ma i nostri bisogni più profondi restano i medesimi. Per quasi tutti noi, la tecnologia non è diversa da quel che era la natura per gli antichi: approfittiamo dei suoi frutti, non capiamo come funzioni. Ciò che non si capisce lo si può solo amare o odiare.
I telefonini causano il cancro? Le ricerche fatte sin qui suggerirebbero di no. L’abbiamo letto ieri su La Stampa, le uniche prove di segno contrario sono state riscontrate in una popolazione di ratti esposta a ore e ore giornaliere di radiazioni non ionizzanti per un paio d’anni, che è poi l’intero ciclo della loro vita. Il National Cancer Institute ha invece recentemente ricordato che «nonostante molti studi abbiano indagato i potenziali effetti sulla salute di radiazioni non-ionizzanti prodotte da radar, forni a microonde, telefoni cellulari e altre fonti, non disponiamo di prove coerenti a sostegno della tesi che tali radiazioni aumentino il rischio di tumori». Uno studio danese sostiene che «non è stato osservato alcun collegamento tra l’uso di cellulari e l’incidenza di glioma, meningioma o neuroma acustico, anche nel caso di individui che hanno utilizzato cellulari per 13 anni e oltre».
La questione pare un po’ meno chiara di quanto ritenga il giudice del lavoro di Ivrea. Non è la prima volta che la magistratura italiana si cimenta con tesi scientificamente ardite. Pensiamo solo a quando gli esperti della Commissione Grandi Rischi erano stati condannati in primo grado per omicidio colposo, per non aver «previsto» il terremoto dell’Aquila. Negli Stati Uniti il ricorso a perizie scientifiche è regolato dai cosiddetti «Daubert standard». Da noi il giudice è libero di fidarsi dello scienziato che preferisce.
Le aule di tribunale non sono impermeabili al clima culturale prevalente. L’impressione è che, almeno in Italia, stia montando una certa ostilità per la scienza e per le novità che la tecnologia produce a getto continuo.
Il guaio è che questioni quali la pericolosità dei campi elettromagnetici, i rischi collegati agli organismi geneticamente modificati, l’utilità dei vaccini, l’appropriatezza terapeutica di questo o quel trattamento, non sono materia per i nostri istinti. Non si può andare «a naso».
Proprio per questo la verità scientifica emerge solo in luoghi particolari: le arene della ricerca internazionale, intensamente competitive, fatte di pubblicazioni, citazioni, revisioni incrociate. Gli scienziati, che sono uomini come tutti gli altri, come tutti hanno i loro pregiudizi. Proprio però le dinamiche competitive della ricerca ne riducono l’impatto.
In Italia, come ricorda Gilberto Corbellini (Scienza, quindi democrazia, Einaudi), la comunità scientifica non è un attore del dibattito e la sua autorità è invocata solo strumentalmente, senza curarsi di quella continua selezione delle ipotesi migliori che avviene nel mondo della ricerca.
Gli incentivi non aiutano. Sentenze spettacolari garantiscono titoli a nove colonne. Verdetti che indicano un colpevole con nome e cognome si guadagnano la gratitudine del pubblico. Figurarsi se il colpevole in questione è un’innovazione ubiqua, ma che nessuno capisce come funziona. Una magia quando la utilizziamo, uno spauracchio quando ci fa comodo.
Da La Stampa, 23 aprile 2017