Perché sono guai se l'euro si rompe?

L'Italexit è un'opzione? In tanti la evocano senza valutarne gli effetti. Ci prova un volume dell'Istituto Bruno Leoni

17 Settembre 2018

L'Economia – Corriere della Sera

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Ha costi sicuri, immediati e rilevanti. I benefici? Incerti e ridotti. Di Italexit, di un’uscita dell’Italia dall’euro, ne abbiamo sentito parlare tanto. Forse troppo. Agitato in campagna elettorale, pubblicamente caldeggiato, poi negato o esorcizzato: lo spettro del ritorno alla moneta sovrana è protagonista del dibattito economico, trova sponda nei partiti, nei comizi, in tv, nei pensieri dei politici e degli italiani. È vero, nel contratto di governo giallo-verde non c’è. Ma pochi si sono presi la briga di spiegare perché auto-eliminarsi dall’Eurozona non solo non sarebbe una soluzione per la debolezza della crescita italiana, ma anzi si trasformerebbe in un moltiplicatore di problemi.
Ci prova l’Istituto Bruno Leoni con il volume Cosa succede se usciamo dall’euro? a cura di Carlo Stagnaro (IBL Libri) , che sarà presentato a Milano, venerdì 21 alle 16.30, al Teatro Franco Parenti.
Ne anticipiamo alcune riflessioni, che gettano luce su aspetti meno conosciuti (e più critici) dell’Italexit. Perché, se è vero che secondo l’ultimo Euro barometro il 51% degli italiani non ha fiducia nelle istituzioni comunitarie, in pochi hanno chiaro che con il ritorno alla lira l’economia andrebbe a rotoli, le finanze pubbliche in crisi, le disuguaglianze aumenterebbero, le banche soffrirebbero, le imprese perderebbero l’accesso ai mercati europei e molti posti di lavoro sarebbero distrutti. «Sebbene la governance dell’Eurozona debba essere riformata – spiega Stagnaro – non solo l’euro non può essere assunto come capro espiatorio dei problemi italiani, ma anzi rappresenta un’ancora di sicurezza per il Paese».

Svalutazione del 30% e mercati (quasi) chiusi
Un’Italia impoverita e isolata, un processo doloroso e traumatico. Se il ripristino della sovranità monetaria avrebbe un iniziale beneficio dalla svalutazione della lira, in un ordine che si può stimare del 20-30 per cento, con l’export avvantaggiato (mentre consumatori e imprese vedrebbero un incremento dei prezzi dei beni importati), concretamente, però, i benefici della svalutazione sarebbero transitori e limitati. E i costi dell’uscita dall’Eurozona in termini di accesso al mercato, contenziosi legali, possibili ritorsioni commerciali sarebbero elevati, nonché immediati.
L’Italexit in breve si trasformerebbe in un disastro, con l’Italia in preda a una crisi di fiducia da parte degli altri mercati e costi altissimi, tutti a nostro carico. «I problemi – scrive Stagnaro – si materializzerebbero anche se gli altri Stati membri dell’Eurozona e gli investitori e risparmiatori esteri si convincessero che l’Italia si sta muovendo con quell’obiettivo. La credibilità si perde facilmente ma è molto difficile da riguadagnare: e minore credibilità, in un’economia globalizzata e interdipendente, significa più problemi nell’accesso ai mercati e maggiore costo del debito».
Lo spiega in un passaggio del libro Sandro Brusco, attraverso la parabola dell’idraulico Germano – impeccabile, puntuale, affidabile – e del suo concorrente Italo – altrettanto bravo ma più sbrindellato, approssimativo, con la testa fra le nuvole. Se Italo vuole accaparrarsi qualche lavoretto, dovrà per forza di cose fare uno sconto, per compensare la sua minore affidabilità. In soldoni, questo è il significato dello spread, questa la ragione per cui il dibattito sulla sovranità monetaria è dannoso a prescindere dall’esito effettivo. «Anche iniziando a tacere adesso – chiosa Brusco – per un bel pezzo ai mercati resterà il dubbio se il silenzio sia la conseguenza di un rinsavimento collettivo oppure della calma prima della tempesta».

A farne le spese sarebbero le fasce più deboli
Nel luglio 2015 la Grecia era a un passo dall’uscita dalla moneta unica. Nelle strade di Atene risuonavano slogan anti Europa, contro i «poteri forti» di Bruxelles che avevano svuotato le casse dello Stato e reso più povera la popolazione. In generale, i nuovi populismi che agitano le urne europee amano fare questo collegamento. Così come ai sostenitori dell’Italexit piace immaginare che con la nuova lira il Paese riacquisterebbe la leva della politica monetaria, mentre la ritrovata sovranità darebbe linfa allo sviluppo economico e accrescerebbe la ricchezza tricolore. Meno disuguaglianze per una società più prospera e più equa, dove i poveri sarebbero di meno e meno poveri.
Ma davvero far parte dell’Unione monetaria europea è così penalizzante? In realtà la maggioranza dei Paesi dell’Eurozona ha già recuperato il livello di ricchezza pre-crisi. Certo, l’Italia non cresce come gli altri (nel 2017,l’ 1,4 per cento, la metà della media dell’area, contro il 3,1 della Spagna, il 2,7 del Portogallo, il 2,2 della Germania e l’1,8 della Francia). Ma non è una debolezza imputabile alla nostra presenza nell’euro, spiega Veronica De Romanis in un capitolo del libro.
Dimostrando altresì che sarebbero soprattutto i cittadini a basso reddito, pensionati e lavoratori dipendenti, a pagare un pesante tributo alla nuova moneta. I costi maggiori cadrebbero sulle spalle di chi fa acquisti prevalentemente in contanti, su chi ha un reddito fisso e non ha modo di ottenere forme di indicizzazione all’inflazione, e su chi ha debiti denominati in valuta estera (incluso l’euro). Scrive De Romanis: «Abbandonare l’euro significherebbe diventare un paese con più poveri, più debito, più inflazione, più banche in difficoltà e, quindi, meno credito per imprese e famiglie. E, soprattutto, con il risultato paradossale che il conto più salato lo pagherebbero i cittadini meno abbienti e meno informati».

Debito e prezzi su, risparmi giù: collasso a tempo
Gli siano avvisati: dall’Italexit, per la finanza pubblica, non arriverebbe nel complesso alcun beneficio.
Il rapporto debito/Pil finirebbe infatti per aumentare, nonostante l’iniziale riduzione dovuta alla ridenominazione in lire e troveremmo difficoltà nel rinnovare il debito man mano che i titoli arrivano a scadenza. Mentre stipendi e pensioni, essendo convertiti in lire svalutate, perderebbero una parte significativa del loro potere d’acquisto.
Vediamo come. Abbandonato l’euro ed emessa una nuova moneta, la sua svalutazione (vedi punto uno) sarebbe veloce e avrebbe effetti sui prezzi interni: costerebbero di più la benzina, l’energia elettrica, gli smartphone. «Dato un peso delle importazioni pari a circa un terzo del prodotto, una svalutazione del 30 per cento produrrebbe un’inflazione di circa il 7,5 per cento» si legge nel capitolo a cura di Natale D’Amico. Il Pil italiano crescerebbe in termini nominali, per effetto dell’inflazione, del 7,5 per cento; il rapporto fra debito e Pil che prima era pari al 133 per cento, si riduce a circa il 124 per cento. «Senonché nello stesso momento si riduce il valore del risparmio degli italiani di ben il 7,5 per cento in meno. L’equivalente, insomma, di una gigantesca imposta patrimoniale – prosegue D’Amico -. Per avere l’ordine di grandezza di cui parliamo: il prelievo forzoso del Governo Amato del 1992 riguardava solo i depositi bancari, e l’aliquota era pari allo 0,6 per cento. Qui l’aliquota sarebbe 12,5 volte tanto, e riguarderebbe, oltre i depositi bancari, anche i titoli di Stato detenuti direttamente o tramite fondi comuni, le obbligazioni emesse in Italia». Facendo i calcoli, alla fine del 2017, secondo i Conti finanziari della Banca d’Italia, le famiglie italiane, escluse le azioni e le quote di fondi comuni detenevano circa 3.000 miliardi di attività finanziarie. Un’inflazione del 7,5 per cento ne ridurrebbe il valore di 225 miliardi.

Per le imprese prestiti difficili e produttività a rischio
Banche e imprese: anche per loro un’eventuale uscita dall’euro non sarebbe una passeggiata. Il sistema del credito, intanto, avrebbe crescenti difficoltà nell’accedere ai finanziamenti e far fronte ai propri obblighi debitori, specie quelli in euro o altra valuta estera. «Se domani i prestiti bancari venissero forzosamente, e necessariamente, convertiti nella nuova moneta svalutata – scrive Filippo Taddei nella parte conclusiva del volume – le banche si troverebbero a risolvere un equilibrio impossibile. Non è un fenomeno nuovo (currency mismatch), gli economisti lo hanno studiato a lungo, riscontrando come l’esito sia l’inevitabile fallimento delle banche stesse o il loro isolamento dai mercati finanziari internazionali. Si tratterebbe fondamentalmente di ricostruire un equilibrio finanziario autarchico in cui il nostro paese non potrà contare sul risparmio mondiale per molto tempo».
Per i no-euro, infine, la nuova moneta rilancerebbe la competitività delle imprese esportatrici. La tesi sostenuta dal volume è che, all’opposto, il ritorno alla lira stroncherebbe il nostro sistema produttivo. «Al Sud le imprese sono mediamente di piccole o piccolissime dimensioni, con scarsa presenza dell’industria e limitata esposizione all’export, quindi il Mezzogiorno non potrebbe beneficiare dei presunti vantaggi della svalutazione – scrive Stagnaro – Anzi, sarebbe colpito dall’incremento dei prezzi dei beni d’importazione. Perfino il turismo non riuscirebbe a trarne pienamente vantaggio: se infatti, come è verosimile, l’Italexit dovesse estendersi anche all’introduzione di limiti alla libera circolazione delle persone, il risultato sarebbe molto probabilmente negativo».
In ogni caso, anche per le industrie esportatrici del Nord Italia la transitoria leva monetaria si tramuterebbe in un boomerang, perché «non potrebbe in alcun modo controbilanciare la perdita di accesso ai principali mercati di sbocco delle nostre merci, quelli europei».

Da L’Economia del Corriere della Sera, 17 settembre 2018

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