Per provare a risolvere tanti problemi, dovremmo riconoscere l'elefante nella stanza: l'autonomia scolastica
30 Marzo 2024
La Stampa
Serena Sileoni
Argomenti / Diritto e Regolamentazione Teoria e scienze sociali
A pochi giorni dalle polemiche sul Ramadan a scuola scatenate dallo scontro tra la scuola di Pioltello e il ministero dell’istruzione, Matteo Salvini è tornato sull’argomento, in eco alla lettera del Presidente Mattarella, per definire la chiusura per il Ramadan «un segnale di cedimento e di arretramento» e per proporre un tetto del 20% di alunni stranieri in classe.
È evidente che queste parole dipendono dal clima da eterna campagna elettorale che ci vede prossimi al voto per il Parlamento europeo: le ha dette Salvini non in quanto ministro competente, dal momento che il suo dicastero è ai trasporti, e le ha dette in una delle principali trasmissioni televisive. Ma è proprio questo il punto che merita una riflessione.
La scuola è, purtroppo per i ragazzi e purtroppo per tutta la società italiana, la cenerentola di ogni governo. Di essa, la politica o non parla o, se parla, lo fa per slogan e facili soluzioni – oggi l’integrazione degli stranieri, domani le tutele sindacali del corpo docente – deviando l’attenzione dai seri problemi che ha e dai modi più razionali possibile di risolverli. Una deviazione a cui, stavolta, è andato dietro purtroppo lo stesso ministro dell’istruzione Valditara, che l’altro ieri, con un cinguettio su X, ha aperto alla proposta di Salvini dichiarando che l’integrazione avviene più facilmente se nelle classi la maggioranza sarà di italiani. Con tutti gli sforzi possibili, è difficile prendere sul serio l’idea.
Se il problema è la conoscenza dell’italiano, bisogna riflettere sul fatto che, date le nostre regole sulla cittadinanza, gli studenti non italiani possono o essere immigrati di seconda generazione, nel qual caso è probabile che parlino italiano, o essere venuti in Italia da poco e avere quindi difficoltà a comprenderne la lingua. In questo secondo caso, la soluzione non è ridurli in minoranza in classe, ma attrezzarsi, come già fanno molti istituti, per offrire ore integrative di italiano, ad esempio nel pomeriggio. Se invece il problema è evitare forme di ghettizzazione e favorire un maggior pluralismo culturale dentro la classe, è improbabile che una diversificazione coatta raggiunga lo scopo.
In una società che inizia solo ora a fare i conti con il tema del pluralismo, la scuola è senz’altro un luogo prediletto per agevolare un’integrazione spontanea come solo i bambini e ragazzi sanno fare. Ma proprio per questo un vincolo esterno sortirebbe l’effetto contrario a una integrazione libera e ben accetta. In pratica, infatti, come si dovrebbe garantire il rispetto del limite? Trasferendo a forza gli studenti di cittadinanza italiana nelle scuole in cui si concentra un alto numero di bambini stranieri, e viceversa?
Le questioni relative all’integrazione scolastica sono un po’ più complesse rispetto alle facili soluzioni da talk show televisivo o da tweet.
Quattro su tutte. Primo, le scuole statali, a dispetto dei bei principi costituzionali, non sono tutte uguali ma tendono a essere migliori nei quartieri e nelle zone più agiate, in un circolo vizioso di domanda e offerta. Secondo, le loro sedi sono spazi inutilizzati per la metà della giornata, con la conseguenza di disperdere un potenziale di programmi utili anche all’integrazione degli stranieri, a partire dall’insegnamento della lingua italiana. Terzo, le classi si stanno spopolando naturalmente di figli di famiglie italiane, perché gli italiani non fanno più figli. Quarto, la distinzione a fini scolastici tra studenti italiani e no è del tutto arbitraria, dato che molti studenti, stranieri secondo le regole sulla cittadinanza, non lo sono né per lingua né per cultura.
Per provare a risolvere queste questioni, dovremmo riconoscere l’elefante nella stanza: l’autonomia scolastica. Senza toccare la questione di una vera libertà di istruzione che passerebbe per l’abolizione del valore legale del titolo di studio e per un sistema di welfare basato sui voucher, sarebbe già molto se alle scuole italiane fosse lasciata quella autonomia amministrativa, didattica e organizzativa che sulla carta già hanno, ma che di fatto si riduce a poco più della scelta tra il laboratorio di scacchi o il potenziamento di una seconda lingua.
Se si prendesse sul serio l’autonomia, si consentirebbe agli organi di governo di ciascuna scuola, che meglio dei ministri e dei leader di partito conoscono la realtà su cui operano, di misurare l’offerta sulle esigenze del territorio e della sua popolazione. È proprio quanto ha provato a fare la scuola di Pioltello, che accoglie molti più bambini musulmani di altri istituti del comune di Milano. È quanto provano a fare ogni giorno, nel silenzio del loro impegno, i dirigenti scolastici, ai quali però non è data autonomia di reclutamento, di negoziazione degli stipendi e progressione di carriera (inesistente per la categoria degli insegnanti), di aggiornamento dei programmi, di adeguamento dell’offerta scolastica e parascolastica al bacino di utenza.
Se è evidente che l’accentramento del sistema scolastico non è stato in grado di garantire un livello omogeneo di garanzia del diritto all’istruzione oltre l’alfabetizzazione, vale la pena provare a prendere sul serio il concetto di autonomia delle scuole. Ciò vuol dire riconoscere anche per loro un principio già accolto come criterio costituzionale per tutti i servizi amministrativi: quello per cui le funzioni pubbliche devono essere svolte al livello più vicino ai cittadini, nel presupposto che esso ne conosca meglio gli specifici bisogni e peculiarità.
Una scuola davvero autonoma, cioè più libera e responsabile, sarebbe una scuola capace non solo di comprendere le esigenze dei suoi studenti, come già fa oggi, ma anche di provare a darvi risposta, per il bene non solo dell’istruzione dei nostri figli, ma della formazione della loro personalità, a prescindere dal contesto familiare, sociale, culturale in cui hanno avuto la ventura di essere nati.
da La Stampa, 30 marzo 2024