La politica economica sta tradendo i giovani Meloni abbia il coraggio di tagliare il debito
Agosto, manovra mia non ti conosco. Nessuno ha ancora voglia di parlarne e di leggerne. Nulla di strano. La legge di bilancio va presentata entro il 20 ottobre e negli ultimi anni si è anche superata di non pochi giorni questa scadenza: 31 ottobre nel 2018, il 2 novembre nel 2019, il 18 novembre nel 2020, 1’11 novembre nel 2021, 29 novembre nel 2022, 30 ottobre nel 2023.
Le anticipazioni di questi giorni servono quindi a scaldare i motori, ma la macchina della proposta di legge di bilancio non si avvierà prima del 30 agosto, giorno in cui Giorgia Meloni ha convocato Matteo Salvini e Antonio Tajani proprio per iniziare a pensare come farla.
Commentare già ora una manovra che non c’è e intenzioni di maggioranza che sono alzate come ballon d’essai rischia di bruciare l’attenzione che essa meriterà, ma è anche vero che lo stato delle finanze e dell’economia italiane sono tali che sarebbe sciocco discuterne solo all’ultimo momento utile, dopo che il governo avrà già deciso cosa presentare.
Per quest’ultimo, la buona notizia è che le entrate tributarie nel primo semestre sono aumentate di 13 miliardi. È presto per fare affidamento su questa cifra senza poter contare ancora le entrate derivanti dalle dichiarazioni dei redditi, ma, per il momento, è qualcosa da raccontare e su cui contare. La cattiva notizia è il basso livello di discrezionalità che esso avrà nel decidere dove allocare la spesa pubblica. Tre quarti della manovra (18 miliardi su 23-25 presumibili) sono infatti già occupati dal rifinanziamento delle «permanenti misure temporanee»: il taglio del cuneo fiscale, cioè la parziale decontribuzione per i redditi da lavoro dipendente più bassi introdotta nel 2022, che da sola vale 14 miliardi; l’accorpamento delle prime due aliquote Irpef sempre per i redditi più bassi.
Con un gravame del genere, sembra difficile dare una propria identità alla manovra che non sia iterativa della indomita mancanza di visione. Eppure, nessuno vieterebbe a Giorgetti e Meloni di provare ad averla, un po’ di visione.
In primo luogo, e nello specifico, si potrebbe non rinnovare il taglio del cuneo fiscale e usare il relativo risparmio per un intervento strutturale sulle aliquote Irpef. La decontribuzione comporta infatti un aumento dell’Irpef solo in parte compensato dalla sua riduzione per i redditi più bassi. In ogni caso è, di fatto, solo uno spostamento temporale della possibilità per i lavoratori di godere dei propri guadagni. Più in generale, questo è il momento migliore, da qui a qualche anno, per provare ad alzare lo sguardo oltre i conti ragionieristici.
Difatti, con le nuove regole del Patto di stabilità l’Italia quest’anno dovrà presentare entro il 20 settembre (quindi, entro domani) un Piano strutturale valido da qui a almeno 5 anni (forse 7) che indichi la buona volontà del paese di sanare i conti pubblici con un percorso di riduzione del debito di almeno, si stima, 10 miliardi l’anno.
Il Piano non sarà composto solo di numeri, ma anche di un’idea programmatica di riforme e investimenti che convinca l’Unione europea circa la sostenibilità del nostro bilancio e che vincoli d’ora in poi lo Stato davanti agli altri membri dell’Unione. La sovrapposizione tra la manovra di bilancio e il Piano strutturale, che rientra nelle nuove procedure per disavanzo eccessivo, è il momento utile per affrontare il problema principale dell’economia e del bilancio nel nostro paese: la senescenza della nostra società e delle nostra capacità produttiva, che sono molto più correlate di quanto non possa apparire. Il debito di 3.000 miliardi di euro, su cui si è soffermato dal meeting di Rimini il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, è il simbolo e al tempo stesso una delle cause di questa mancanza di forze e di vitalità. Un percorso di aggiustamento del debito che usi in primo luogo le manovre di bilancio, prima che un vincolo europeo, è un’impellenza da cogliere nella predisposizione del Piano.
E invece, mentre di questo ancora non se ne parla, della manovra 2025 sono uscite solo indiscrezioni su spiccioli due miliardi – di spending review dai ministeri; o su questioni non strategiche come il mancato rinnovo della detassazione del welfare aziendale; o sulla revisione delle detrazioni, rispetto alla quale parlarne è il modo più sicuro per non farla; o sulla riduzione del canone Rai, con le generazioni dal 1926 al 1945 che sono le principali spettatrici della televisione (fonte: Istat) nonché le principali esenti dal canone; o della riduzione di platea dello sgravio contributivo per le mamme lavoratrici dipendenti con più figli. Un’agevolazione, questa, discutibile per molte ragioni, ma una misura che solo lo scorso anno era ritenuta “cruciale” dal presidente Meloni. Per trovare qualche idea più forte, dovremo discutere di quota 41 della Lega, una nuova modifica del sistema previdenziale che comporterà guarda caso – un aumento della spesa pensionistica.
La nostra spesa pubblica è sbilanciata sulla popolazione più adulta e anziana e disattenta alle necessità della popolazione più giovane. Ce lo dice, prima ancora che il mercato del lavoro, la condizione del nostro sistema di istruzione, per il quale – lo ha appena ricordato Panetta a Rimini – si spende meno che per gli interessi sul debito.
Il Piano pluriennale che tra solo un mese Meloni dovrà presentare a Bruxelles sarebbe l’occasione buona per pensare a qualcosa di più decisivo in merito alla distribuzione del carico tributario tra generazioni, per esempio una forma di tassazione collegata all’età anagrafica e lavorativa, e della distribuzione delle risorse dei contribuenti, a partire da quelle utili a garantire una buona istruzione e una buona formazione. L’investimento più utile e sicuro per l’intero Paese.