Industria e politica. Due percorsi in una straordinaria esistenza, quella di Franco Debenedetti. Imprenditore e manager, politico ed editorialista. «Un vasto curriculum semovente», l’ha definito di recente Giuliano Ferrara.
Debenedetti, 83 anni, presidente dell’Istituto Bruno Leoni, è stato per 35 anni figura di spicco del mondo industriale: osservatore attento di entrambe «le metà del cielo», come lui ama indicare l’industria pubblica e l’industria privata.
Laureato nel 1956 in Ingegneria Elettrotecnica al Politecnico di Torino, con specializzazione in Ingegneria Nucleare nel 1957, Debenedetti esordisce nell’azienda di famiglia fondata dal padre Rodolfo, la Compagnia Italiana tubi Metallici Flessibili, che diventerà la Gilardini. Poi la cavalcata nelle grandi multinazionali: la Fiat, dopo l’uscita di suo fratello Carlo, e la Olivetti di Adriano. Nel 1994 decide di entrare in politica, con un’idea in testa: che il Paese abbia bisogno di potenti iniezioni di liberalismo. Che in un Paese che ha conosciuto una presenza diretta dello Stato nell’economia superiore, per durata ed estensione, a quella di qualsiasi Paese occidentale, sia necessario sradicare l’insana idea della politica industriale. E’ il sottotitolo del suo ultimo libro «Scegliere i vincitori, salvare i perdenti» (Marsilio, pp. 336,18 euro).
Debenedetti usa l’idea della politica industriale come chiave interpretativa della storia economica del Paese: «Per indicarla a chi non la riconosce, per convincere chi ancora ci credesse, per confinarla nella sua riserva: per questo ho scritto contro la politica industriale».
Debenedetti, da dove nasce questo racconto economico?
La politica economica ha diversi strumenti: monetario, fiscale, industriale. Tutti sono in qualche modo sono distorsivi, cioè incidono in modo diverso sulle varie componenti della società.
Ma mentre le prime due non alterano in modo significativo i prezzi relativi, per la politica industriale l’alterazione dei prezzi è proprio l’obbiettivo: essa ha effetti visibili, che si producono rapidamente, a volte fin dal loro annuncio. Per prendere esempi di questi giorni: Renzi intende affrontare il problema dell’Ilva di Taranto o della più celere diffusione della banda larga. Ma vuole farlo con interventi diretti, perfino per quanto riguarda le tecnologie da usare. Sono intrusioni che alterano profondamente il mercato.
Perché lo Stato, e lei lo contesta, pretende di sapere meglio del mercato come far crescere l’economia?
Questa è una presunzione che porta al fallimento. Noi abbiamo visto la degenerazione dell’intervento pubblico, dagli anni ’80 fino al collasso nel ’92 che ha portato con sé quello della classe politica.
Ma ci sono anche motivi teorici per cui questa fine è inevitabile: riguardano i costi di informazione, i noti meccanismi di scelta pubblica, la restrizione della concorrenza dovuta alla creazione di monopoli di Stato.
Gli interventi della magistratura?
L’ideologia della politica industriale è stata pervasiva: ha influito sul sistema bancario, sulla politica culturale e su quella giudiziaria. Sabino Cassese di recente ha scritto che non c’è atto di qualche rilevanza economica sul quale qualche magistrato non ritenga di dover gettare un occhio di attenzione.
Ci sono stati casi, di grande importanza, in cui azioni della magistratura, poi finite in nulla, hanno prodotto conseguenze irreversibili nella vita di un’azienda. Penso ad esempio alle vicende che sono finite con l’uscita di Colaninno dalla Telecom.
Al culmine della trattazione del ruolo dello Stato nell’economia, lei colloca la citazione di Adam Smith: pace, tassazione non asfissiante e amministrazione equilibrata della giustizia come condizioni basilari.
Uno dei primi compiti dello Stato è quello di proteggere il paese dall’esterno e di garantire l’ordine pubblico all’interno. Compito dello Stato, inoltre, è istituire un sistema giudiziario, che garantisca i diritti di proprietà, la validità dei contratti e arbitri le vertenze tra cittadini. Sono le condizioni elementari per lo svilupparsi del mercato.
Per fare tutto questo lo Stato ha bisogno di raccogliere tributi dai cittadini. In modo non asfissiante, dice Adam Smith; evitando «il grande sciupinio», dice Manzoni. Se riescono a farlo condurranno il loro Paese «dallo stato di barbarie più opprimente allo stato di opulenza».
Da Brescia Oggi, 8 giugno 2016