La speranza è che l’Italia sul Pnrr possa fare davvero come il calabrone, che è troppo pesante per volare ma non lo sa e vola lo stesso. A differenza però del calabrone, il nostro Paese sa benissimo che, almeno fino a ieri, non è stato affatto capace di volare. Del resto, i numeri dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre sono impietosi: dovessimo farcela, vorrebbe dire tenere una media annua di investimenti fra 2023 e 2026 da 42 miliardi di euro (i fondi europei sono complessivamente 191,5 miliardi), ovvero 4,5 volte più alta di quella richiesta dai fondi di coesione che Roma non riesce a spendere. Basti pensare che dei 64,8 miliardi di fondi europei di coesione messi a disposizione dell’Italia nel periodo 2014-2020, di cui 17 di cofinanziamento nazionale, poco meno della metà (29,8) sono ancora da spendere.
Se l’Italia non lo farà entro quest’anno, la parte non utilizzata dovrà essere restituita. Insomma, la macchina italiana è farraginosa da ben prima dell’avvento del governo Meloni, che le opposizioni prendono di mira per i ritardi nell’attuazione del Pnrr e per le richieste di rimodulare un piano imbastito da altri. Eppure, però, la corsa a mettere in pista il Pnrr può essere l’occasione per oliare una macchina appesantita da anni di austerità, tagli degli investimenti, indebolimento del personale.
«Questo è possibile solo attraverso la digitalizzazione della Pubblica amministrazione e l’attuazione di un grande piano di assunzioni, che però inserisca nella macchina le competenze giuste», osserva Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni. «Servono poi riforme per Pa e giustizia. Così, in futuro, il Paese sarà in condizione di spendere efficientemente i soldi europei». In attesa della spinta che apporterà la recente riforma degli appalti, l’Italia deve disperatamente accorciare i tempi per le opere: secondo Banca d’Italia, nel nostro Paese la durata media per la realizzazione di un’opera è di 4 anni e 10 mesi. E se l’investimento è di cinque milioni, i tempi allora si dilatano a 11 anni. Il nostro Pnrr è composto da 235,6 miliardi di euro, di cui 191,5 riconducibili al Recovery Fund, 30,6 a un fondo complementare e gli altri 13,5 miliardi dal React-Eu, ulteriori fondi europei per spingere la ripresa post Covid. Secondo le stime, con questi investimenti il Pil italiano nel 2026 dovrebbe essere del 3,2% superiore rispetto a quello che si avrebbe senza riuscire a farli.
Secondo l’Ufficio studi della Cgia, a fronte di 183 miliardi di investimenti, nel 2026 si avrebbe un aumento strutturale del Pil di circa 70 miliardi, determinando un moltiplicatore del Pil pari a 1,2. Insomma, un effetto sulla crescita tutto sommato modesto che suggerisce anche una bassa redditività delle opere programmate. Ma allora cosa si può fare per far rendere meglio questi soldi e, soprattutto, riuscire a spenderli?
«Non bisogna avere tutta quest’ansia di usarli tutti», è l’opinione di Stagnaro. «Se si scorre il Pnrr si ha la sensazione che alcune cose siano state inserite proprio per arrivare a 200 miliardi: penso per esempio ai treni a idrogeno, i cui bandi sono finiti deserti. Inoltre, ci si concentra molto sulle infrastrutture dell’alta velocità al Sud, ma pochissimo sul miglioramento delle ferrovie locali e la mobilità urbana di queste zone». Per l’economista, quindi, la strada è usare meglio le risorse: «Meglio spenderne anche solo 150 o 170 miliardi, ma portando a termine i lavori. A quel punto ci troveremmo anche meno debiti, visto che una parte dei soldi sono prestiti che ci troveremo a dover restituire».
da Il Giornale, 9 aprile 2023