13 Novembre 2022
La Provincia
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
All’inizio sembrava soltanto indicare elementari regole di buona educazione che invitavano a rispettare le differenti identità ma ora pretende di distinguere il bene dal male
Nel dibattito domina da tempo una nozione, quella di “politicamente corretto”, che inizia a sollevare inquietudine. Basti pensare che lo scorso anno un ministro del Regno Unito, Michelle Donelan, ha sostenuto che in accademia vige ormai una censura simile a quella sovietica. Il controllo sulle parole s’accompagna a quello sui comportamenti, se si considera che gli studenti non vaccinati non possono più iscriversi a Harvard e ciò a dispetto del fatto che proprio un centro di quella università ha sostenuto che ogni aumento delle infezioni è del tutto scollegato dai livelli della vaccinazione.
La nuova moralità e il nuovo linguaggio però ignorano i fatti: esigono un’obbedienza cieca e al di là di ogni falsificazione. Al suo primo apparire il “politically correct” sembrava soltanto indicare elementari regole di buone educazione, che invitavano a rispettare le differenti identità. E non c’è dubbio che le origini geografiche, le preferenze sessuali, le pratiche religiose e qualsiasi altro tratto individuale non dovrebbero, tra persone civili, fungere da pretesto per gratuite ironie. Se si fosse trattato soltanto di questo, non ci sarebbe stato molto da obiettare.
Tutela e forzatura
Le cose, però, sono sfuggite di mano, dato che siamo sempre più dentro un contesto che pretende di definire ciò che è bene e ciò che è male. Secondo taluni dovremmo addirittura condividere tutta una serie di tesi: specie se sono espresse da gruppi minoritari e quindi degni di tutela. Una cosa, però, è essere ben consapevoli che musulmani e testimoni di Geova hanno diritto a professare la loro fede, e cosa del tutto diversa è abbracciare un giudizio positivo su entrambe queste religioni (ciò che a ben guardare è impossibile, data l’incompatibilità delle prospettive).
Molto sembra partire dalla pretesa di “governare” il linguaggio. Nelle imprese e nelle università, infatti, abbiamo a che fare con veri e propri lessici predefiniti, i quali da un lato sembrano imporre l’uso costante del femminile e del maschile (del tipo: “Gentili colleghe, gentili colleghi”), e dall’altro spingono ad accantonare la logica binaria in nome di una libertà di definirsi come si vuole che, sul piano della scrittura, sarebbe interpretata dalla cosiddetta “schwa”. Se inizialmente tutto ciò sembrava confinarsi in un ambito quasi innocente, è presto parso chiaro che la volontà di condizionare il linguaggio intendeva predefinire la maniera stessa di pensare e comportarsi.
Nel suo fondamentale romanzo volto a tratteggiare la società totalitaria del futuro (“1984”), George Orwell ha mostrato come il potere abbia bisogno di manipolare il lessico e riformulare grammatica e sintassi (la neolingua) al fine di controllare i pensieri. Per essere come si deve essere secondo i diktat degli “illuminati”, comunque, non basta usare taluni termini. Oltre che risultare allineati sulle questioni di genere bisogna infatti sposare i nuovi dogmi in tema di riscaldamento globale, transizione verde, multiculturalismo, politiche militari, emergenzialismo sanitario e mille altre cose.
Razionalità e fanatismo
L’essere “à la page” implica un’impostazione complessiva, la quale definisce con chiarezza ciò che è giusto e, al tempo stesso, ciò che è malvagio. Anche se a più riprese irreligioso, il politicamente corretto è insomma animato da un’ossessione fanatica, che impedisce il confronto razionale nel momento in cui oppone la luce e il buio, con la pretesa di avere appreso cosa sono l’una e l’altro. Per giunta, la configurazione del potere del nostro tempo che intreccia politica, economia e cultura non intende lasciare spazio a posizioni “eretiche”.
Soltanto per fare un esempio, quando il fisico Carlo Rubbia, che nel 1984 fu insignito del Nobel per la fisica, ha tenuto una posizione un poco eretica sul “climate change”, subito è scattata un’operazione di distruzione dell’immagine. Il messaggio arrivato agli studiosi fu chiaro: se questo è stato possibile ai danni di un premio Nobel, figuriamoci cosa può succedere a chi non ha quello status… E d’altra parte i maggiori finanziamenti a progetti di ricerca, in grado di aprire la strada a una luminosa carriera accademica, sono per studi che si focalizzano su ben precisi temi.
La politica indica la direzione e l’accademia deve accodarsi. Molti avvertono come questo annulli ogni confronto e spenga la competizione, ma uscire da tali logiche è praticamente impossibile. In questo scenario, soltanto una rivoluzione culturale può rianimare la società e restituirle spazi di confronto. Non si tratta, però, di qualcosa che sia all’orizzonte.
da La Provincia, 13 novembre 2022