Ponte di Messina: Renzi non cambia verso

Cambiare direzione è difficile, probabilmente controproducente in termini di consenso immediato ma è possibile

9 Novembre 2015

IBL

Argomenti / Politiche pubbliche

Forse si tratta solo di una boutade elettorale. Nessun impegno circostanziato ma quasi un arrendersi all’ineluttabile. Il Ponte si farà, ha confidato Renzi a Bruno Vespa, perché quella è la direzione della tecnologia, della ingegneria e, nientemeno, della storia. Non attribuiremmo peraltro soverchia importanza alle poche battute del Presidente del Consiglio. A giudicare dall’operato di quasi venti mesi dell’esecutivo, non si ravvisa infatti nel settore delle infrastrutture alcuna rassomiglianza tra le enunciazioni di principio e gli atti concreti di governo. Nel programma delle primarie, Renzi evidenziava la necessità di “scegliere le grandi opere che servono davvero e di rivedere il piano delle infrastrutture chiedendo che una commissione internazionale di esperti fornisca un parere indipendente su costi, rischi vantaggi e benefici di proposte alternative” e sottolineava l’urgenza di sfatare due miti: 1) che in Italia non si investa abbastanza in infrastrutture; 2) che il vero sviluppo si faccia con le grandi opere. Ed auspicava infine un contenimento della spesa che si potesse tramutare in una riduzione del prelievo fiscale.

Propositi assai condivisibili che però tali sono rimasti. Di analisi costi-benefici non vi è traccia e le sei grandi opere ferroviarie della “Legge Obiettivo” sono state riconfermate in blocco; il Ponte sarebbe eventualmente la settima. Si tratta di infrastrutture che  comportano un costo complessivo di quasi 30 miliardi interamente a carico dei contribuenti: 2.000 euro in media per una famiglia di quattro persone che con molta probabilità lieviteranno in corso d’opera. Un investimento forzoso per linee che la maggior parte degli italiani non utilizzerà mai o, se lo farà, sarà per pochi viaggi nell’arco di una vita intera. A trarre beneficio saranno poche decine di migliaia di viaggiatori, qualche ministro o assessore grazie al taglio di un nastro poco prima di un’elezione e, soprattutto, i costruttori, indifferenti all’utilità degli investimenti, ma che non mancheranno verosimilmente di esprimere la propria riconoscenza a chi li ha promossi.

Cambiare verso è difficile, probabilmente controproducente in termini di consenso immediato ma è possibile. Quando, trent’anni fa, da ambo i lati della Manica, politici di tutti gli schieramenti chiedevano a gran voce che fossero i governi francese e britannico a farsi carico del finanziamento del tunnel sotto la Manica, Margaret Thatcher disse no: “Not a single penny from the public purse”. Così fu. Come d’abitudine,  anche in quel caso i costi sono raddoppiati ed i traffici si sono rivelati inferiori a quanto previsto. La realizzazione dell’opera ha comportato una perdita di benessere per  i britannici stimata pari a dieci miliardi di sterline ma, consolazione non da poco per i contribuenti, ad essere privatizzate per una volta sono state le perdite e non i profitti. Prodigi neoliberisti.

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