Il populista liberale che sogna il tango col dollaro

Mentre i Brics chiamano Buenos Aires a partecipare a un piano di de-dollarizzazione, Milei spinge in direzione opposta

11 Settembre 2023

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Economia e Mercato Teoria e scienze sociali

Javier Milei è il personaggio dell’imminente tornata elettorale argentina. Tra Trump e Bolsonaro, con un pizzico di Grillo, chi è il descamisado che mette all’angolo i peronisti

Il tasso d’inflazione in Argentina, a luglio, è stato del 114%, gli analisti prevedono che per fine anno tocchi il 142%. Ad agosto il peso è stato svalutato del 22%. Nel Paese ci sono controlli sui capitali e si ragiona di aggiungere nuovi controlli sui prezzi ai prezzi amministrati che già ci sono. Tanto dovrebbe bastare a spiegare la cornice in cui si situano le elezioni generali del prossimo 22 ottobre, quando si voterà per il Presidente e per il Parlamento. Il sistema elettorale argentino vede le elezioni vere e proprie precedute da una tornata di «primarie», che dovrebbero servire ai partiti per scegliere il proprio candidato e che sono in realtà una sorta di gigantesco sondaggio. 

Alle primarie ha fatto man bassa di consensi Javier Milei, un candidato che non aveva concorrenti nel suo stesso partito ma che ha superato il 30% dei consensi fra quanti sono andati a votare. In quell’occasione, il peronismo ha subito una batosta eclatante, con il suo candidato giunto appena alle soglie del 20%. Il terzo candidato che potrebbe diventare presidente è Patricia Bullrich, che guida il partito dell’ex presidente Macri, l’unico che in anni recenti è riuscito a sconfiggere la macchina da guerra peronista. Milei ha conquistato l’attenzione dei media internazionali. È un candidato istrionico, coi capelli sempre per aria, che parla chiaro e non disdegna di alzare la voce. Alcuni l’hanno rapidamente identificato come un clone argentino di Trump e Bolsonaro, la coppia archetipica dei populisti di destra. Altri hanno colto le assonanze con Beppe Grillo. 

Il discorso politico di Milei è un attacco feroce alla «casta» dei politici argentini, i peronisti al governo ma anche i «macristi» che, nella breve stagione di questo presidente liberale, non riuscirono a riformare il Paese e lo restituirono al clan di Cristina Kirchner. Se c’è un Paese dove le impronte digitali dei capi politici stanno su tutti gli scandali, è l’argentina e non sorprende certo che, in un momento di forte difficoltà economica, chi soffia sul fuoco della responsabilità morale dei detentori del potere voli nei sondaggi.

Però Milei è in realtà una cosa diversa. Se è un populista, è un populista liberale, il cui programma è l’esatto contrario di un catalogo di promesse per raccattare voti. Milei promette riduzione delle tasse ma pure della spesa, privatizzazioni, cancellazione dei ministeri per restituire alla società piena sovranità su se stessa, anche quando si parla di cultura o di scuola. Secondo Alvaro Vargas Llosa, Milei manca del tutto di ceto politico e non è ben chiaro chi possa tecnicamente tradurre le sue proposte radicali in riforme, e men che meno chi possa accompagnarle in Parlamento. Bullrich invece ha un partito con radici solide, ma manca di quell’ambizione rasentante la follia che probabilmente è necessaria per cambiare l’argentina. Un’alleanza fra i due è improbabile e c’è il rischio che il perdente, anziché proporsi per migliorare la squadra del vincitore, scelga di giocare al tanto peggio tanto meglio.

In una certa misura, Milei è consapevole dei suoi problemi, come dimostra la sua proposta che ha attratto più attenzione: abolire la banca centrale e dollarizzare l’economia argentina. Mentre l’argentina viene invitata dai Brics a partecipare a un progetto di de-dollarizzazione dell’economia globale, Milei spinge in direzione opposta. Non solo per ragioni geopolitiche. Milei vuole legare Ulisse all’albero maestro. Dollarizzare significa ridurre drasticamente i margini di manovra del governo. Come dicevano i nostri sovranisti qualche anno fa, uno Stato che conserva la banca centrale può finanziare il proprio debito: non è così semplice e non è detto ci si riesca all’infinito, ma senz’altro l’argentina è il Paese che più ha provato ad avvicinarvisi. 

Milei vuole togliere il controllo della politica monetaria ai politici, che se diventasse presidente vorrebbe dire anche a se stesso. La sua ipotesi di lavoro non è quella di agganciare il peso al dollaro, come gli argentini già fecero negli anni Novanta, col non trascurabile risultato di ridurre l’inflazione dal 2600% nel 1989 all’1% nel 1998. La banca centrale allora c’era e la coesistenza delle due valute creava tutta una serie di problemi di tassi di cambio differenziati per importazioni ed esportazioni. Il peg col dollaro venne abbandonato da Nestor Kirchner, quando nel 2002 il Paese entrò in quella crisi che ancora tutti ricordiamo.

La proposta di Milei elimina il problema: niente banca centrale e pagamenti in dollari statunitensi, non in biglietti il cui valore dipende da questi ultimi. L’argentina non sarebbe il primo Paese a farlo: l’Ecuador, El Salvador, Panama sono già «dollarizzati». Per quanto nessuno di questi Paesi sia stato costretto dall’aver adottato la valuta americana a riforme così ambiziose come quelle che vorrebbe Milei, negli ultimi vent’anni sono i tre Paesi latinoamericani che hanno avuto i tassi d’inflazione più contenuti. Anche dopo la pandemia, in nessuno di quei tre Paesi si è osservata negli ultimi anni inflazione a due cifre. Questo perché l’adozione della moneta americana (indipendentemente dalla Fed e da Biden) ha agito come vincolo esterno e ha dunque evitato quell’ampio ricorso a ristori e bonus, che ha appiccato il fuoco dell’inflazione.

L’adozione della valuta del leader economico della regione può anche spingere gli scambi, avvicinando l’economia argentina e quella statunitense. È una proposta tutt’altro che populista, anche se a intestarsela è un liberale descamisado.

da L’Economia del Corriere della Sera, 11 settembre 2023

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